a cura di Pierluigi Sacco.
La storia dello sviluppo locale a base culturale in Italia è lastricata di belle intenzioni e di tanti fallimenti, per lo più dovuti ad una carenza di cultura amministrativa che, nei casi migliori, ha avuto il merito di dare avvio ad un percorso di reale di cambiamento ma ha perso per strada il coraggio di perseguirlo fino in fondo, e nei casi peggiori lo ha pregiudizialmente rifiutato preferendo rifugiarsi nelle formule più immediatamente remunerative, dal punto di vista dell’immagine e del consenso, dei grandi eventi e del taglio dei nastri di strutture destinate prima o poi a soccombere sotto la scure della sostenibilità finanziaria.
In Italia mancano dunque esempi compiuti di sviluppo a base culturale, anche se certamente in alcuni casi, ad esempio Torino, si è fatta molta strada e si sono in ogni caso ottenuti effetti permanenti non trascurabili.
Ma cosa vuol dire in ultima analisi un modello ‘compiuto’? L’aspetto più importante da considerare è l’auto-sostenibilità del processo, che non vuol dire l’indipendenza dalle risorse pubbliche (alcune attività, soprattutto in settori come le arti visive, il patrimonio storico-artistico e lo spettacolo dal vivo non sono semplicemente non sono possibili senza risorse pubbliche), ma la sostenibilità politica dell’impiego di risorse pubbliche nello sviluppo a base culturale. Il che vuol dire soprattutto una comunità capace di riconoscere e apprezzare l’importanza di una simile traiettoria di sviluppo in tutte le sue implicazioni, comprese quelle economiche, sociali e di sviluppo umano, senza cadere nelle solite trappole retoriche della contrapposizione tra soldi alla cultura e soldi agli asili o ai servizi sociali.
Questo tipo di espedienti viene invece usato correntemente nell’arena del dibattito politico nel nostro paese per manipolare strumentalmente l’opinione pubblica, e il problema è che proprio perché manca quasi completamente una reale consapevolezza del contributo della cultura nel garantire, tra le altre cose, obiettivi fondamentali quali la qualità della vita, la coesione sociale e la capacità competitiva, tali espedienti si rivelano normalmente piuttosto efficaci. Il punto è che queste condizioni di sostenibilità mancano in Italia in primo luogo a livello nazionale – non a caso il nostro paese è l’ultimo nell’Europa a 28 per la spesa pubblica in istruzione e cultura: un dato quantomeno sconcertante che però, eloquentemente, non ha scosso più di tanto un’opinione pubblica forse ormai rassegnata allo stillicidio di primati negativi inanellati dal nostro paese negli ultimi anni.
E questo significa quindi che se qualcosa deve cambiare, questo può presumibilmente avvenire a partire da esperienze a livello locale rese possibili da una nuova generazione di amministratori disposti ad investire tempo ed attenzione nella comprensione del rapporto spesso contro intuitivo ed apparentemente elusivo tra cultura e sviluppo, a partire dall’aspetto fondamentale, e in Italia particolarmente trascurato, della partecipazione culturale attiva.
Capita così che anche quando si studiano gli esempi più interessanti, non li si comprendono proprio perché si tende a leggerne in maniera distorta soltanto gli aspetti che rispondono alla logica già familiare: il caso più eclatante è naturalmente quello di Bilbao, che porta tuttora molti amministratori locali a credere che la chiave del successo sia stata la costruzione di una architettura-feticcio capace di attirare folle di turisti, e non la creazione di un sistema di produzione fondato sul capability building e sullo stimolo dell’imprenditoria culturale e creativa.
Per capire queste dinamiche non si può decidere con approssimazione o per sentito dire come si fa normalmente in Italia quando si parla di politiche culturali. Occorre capire e conoscere davvero ciò di cui si parla. La nuova generazione di amministratori locali italiani che vorrà raccogliere davvero questa sfida deve quindi prepararsi a fare quello che fanno molti dei loro colleghi stranieri: documentarsi, dedicare tempo, riflettere. Senza una cultura amministrativa adeguata, lo sviluppo a base culturale in Italia non decollerà mai. E sarebbe probabilmente l’occasione perduta che rimpiangeremmo di più negli anni a venire. Perché negli anni a venire, che ci crediate o no, sarà soprattutto la cultura a fare la differenza, tra città e città, tra regione e regione, tra paese e paese.