Trasformazioni urbane:
quando l’arte produce nuovi modelli di cittadinanza
a cura di Gabi Scardi
Pedro Reyes, Palas por Pistolas (Guns for Shovels), 2007 – present. Courtesy Lisson Gallery, Milano
Esiste però uno specifico ambito dell’arte contemporanea nella quale rientrano artisti particolarmente sensibili alle istanze di qualità di vita, trasformazione sociale e urbana. Pur considerando che si fa riferimento a poetiche sempre uniche e singolari, possiamo dire questi artisti sono accomunati dall’attitudine a reagire agli scenari quotidiani proponendo nuovi possibili modelli di socialità e di cittadinanza. Questo orientamento progettuale e costruttivo si riscontra oggi in un ampio numero di artisti; e, quando la loro progettualità si coniuga con l’energia, la vitalità e l’ambizione, genera oggi opere e interventi tra i più significativi.
Pensiamo a un artista come Pedro Reyes: nato a Città del Messico nel 1972, architetto di formazione, il suo lavoro origina dall’idea che, mettendo in campo gesti coinvolgenti e di forte significato simbolico, l’arte possa trasformare ciò che tocca. Così, per esempio, il suo Palas Por Pistolas – Pale al posto delle pistole, consiste, con le sue parole, in “una campagna per il controllo del commercio delle armi leggere”; l’artista ottiene infatti dai cittadini di Culiacán, comune noto come centro della violenza legata al narcotraffico, millecinquecentoventisette armi da fuoco; in cambio dà loro dei voucher con cui comprare materiale elettronico, rispondendo così a un loro desiderio. Dopo aver fuso le armi pubblicamente ne fa altrettante pale, che ridistribuisce presso la popolazione affinché vengano utilizzate per piantare alberi nella città. Dopo Palas Por Pistolas Reyes realizza Imagine: in questo caso all’origine del lavoro ci sono migliaia di armi da fuoco sequestrate dal Ministero della Difesa messicano ai trafficanti di droga. L’artista ottiene di poterle utilizzare e, tramite un minuzioso lavoro, che coinvolge un grande numero di specialisti, le trasforma in un’ampia serie di strumenti musicali funzionanti. Gli strumenti, passati dall’essere dispositivi per uccidere all’essere strumenti di comunicazione attraverso la musica, saranno effettivamente suonati nell’ambito di concerti pubblici: un modo per dare voce e visibilità pubblica alle alternative che esistono. È chiaro che, per Reyes, il tema portante del lavoro artistico è la possibilità di una reale trasformazione della società, e l’opera ne è metafora; e la condivisione riguarda sia le preoccupazioni da cui l’opera scaturisce, sia la lunga e complessa fase di elaborazione, sia il momento della restituzione. Questa condivisione del proprio lavoro artistico, così chiaramente perseguita, da un lato è in sé elemento di senso, dall’altro contribuisce a fare dell’intervento artistico una piattaforma di azione comune, concreta e insieme simbolica, e quindi un veicolo di cambiamento potente ed efficace.
L’orientamento esemplificato attraverso il progetto di Reyes, che privilegia progetti basati su condivisione, socialità, scambio di competenze, senso di vigilanza civile, desiderio di dire la propria su tematiche fondamentali, e come perno per un possibile cambiamento – seppur a lungo, o anche a lunghissimo termine – anima le opere di molti altri tra gli artisti più interessanti del presente. “Perhaps – scriveva nel 2012 Nato Thompson nel suo importante LIVING AS FORM – in reaction to the steady state of mediated two- dimensional cultural production, or a reaction to the alienating effects of spectacle, artists, activists, citizens, and advertisers alike are rushing headlong into methods of working that allow genuine interpersonal human relationships to develop. The call for art into life at this particular moment in history implies both an urgency to matter as well as a privileging of the lived experience. These are two different things, but within much of this work, they are blended together.” Queste istanze conferiscono ai progetti in questione una valenza “pubblica”. Nei secoli l’arte occidentale è stata essenzialmente pubblica, ossia vincolata; funzionale al bisogno di autorappresentazione e di comunicazione, di trasmissione della storia e della memoria del committente da cui l’artista dipendeva. Per il principe, per la gerarchia ecclesiastica, per il banchiere, l’opera d’arte costituiva un veicolo diretto di prestigio, di promozione, di celebrazione personale. Che realizzasse una pala d’altare o gli affreschi che, nelle Chiese, dovevano fungere da biblia pauperum, le pitture murali di un ospedale o il monumento a cavallo che avrebbe segnato il fulcro di una piazza, che si mettesse al servizio del principe come organizzatore della vita di corte e dei suoi riti, l’artista rispondeva a un ruolo ufficiale, codificato per convenzione e sancito da precisi contratti; in questo senso era integrato alla vita sociale, e la rappresentava. Il suo linguaggio doveva corrispondere ai coevi codici di lettura dell’opera; la sperimentazione formale poteva quindi procedere solo per minime variazioni sul tema. La consapevolezza del ruolo di creatore e di intellettuale, l’ambizione a un maggiore margine di autonomia emersero, negli artisti, lentamente e progressivamente, a partire dall’età umanistica. E solo molto più tardi andò maturando un senso di responsabilità civile che, sullo scorcio del Settecento, li portò a guardare alla storia con libertà critica, e a farsene interpreti in prima persona. La strada da percorrere era ancora lunga. Doveva passare attraverso le avanguardie con la loro sperimentazione linguistica sempre più veloce e con la loro polemica contro la tradizione e contro la tendenza dell’arte a farsi espressione del conformismo sociale. Ma è soprattutto con la prima metà del Novecento, con i grandi totalitarismi, con la crisi di certezze che ne consegue e con il profondo mutamento della temperie culturale, con la sempre maggiore difficoltà a pensare il rapporto con la storia, quindi a rappresentarla, che l’artista, tra le figure più attente alle trasformazioni, ai nuovi contesti e ai nuovi valori, alle istanze sociali del presente, avverte la necessità di recuperare rapporto, suffragio e una posizione di responsabilità con la realtà mutata. Un processo che va di pari passo con la generale democratizzazione della società, ma anche, come già sottolineato da Thompson, con l’esigenza di contrastare l’effetto totalizzante della società dello spettacolo, così efficacemente denunciato dal Situazionismo sin da fine anni Cinquanta. Con questa posizione di rinnovato impegno all’interno della compagine sociale, sono molti gli artisti che, già da quegli anni, decidono di assumere un ruolo di vigilanza critica e scelgono di uscire dallo studio, dalla galleria, dagli spazi deputati e dai percorsi predestinati. È un momento di grande rinnovamento del quadro linguistico e concettuale e, nelle sperimentazioni più radicali, si assiste a un avvicinamento – fino al limite della fusione – tra arte e vita: l’opera comincia a farsi, “situazione”. Basti pensare a una figura come Pinot Gallizio, o agli artisti Fluxus per i quali ogni gesto può essere arte, se realizzato intenzionalmente e all’interno di un percorso dichiarato; perché, con le parole di Filiou, “l’art, c’est ce qui fait que la vie est plus intéressante que l’art”. Con tutto ciò, la storia dell’arte nell’accezione contestuale a cui oggi facciamo riferimento è recente; non solo; come ogni altro aspetto dell’arte contemporanea è erratica, ed evolvendosi con i ritmi e con la velocità con cui il contesto si trasforma, richiede di essere sempre aggiornata. Non si tratta di una debolezza, ma di un elemento di vitalità che la rende organica, intrinsecamente votata alla crescita, sostenibile nel tempo: è materia viva, consistente nel cercare forme sempre nuove e diverse per affrontare la complessità del mondo nelle sue sfaccettature, per comprenderne ed esprimerne le dinamiche fondamentali, gli incroci di culture diverse, per raccogliere la continua domanda di ridefinizione degli spazi e dei modelli di vita.
L’accezione di arte sinora contemplata non è isolabile, ma può rappresentare un nucleo intorno al quale si articola una costellazione di opere; esemplare in questo senso la Silent University dell’artista turco Ahmet Ögüt: una para-università destinata a raccogliere e mettere in circolo quel sapere che rischia di andare perduto in quanto appartenente a soggetti che non sono in grado di condividerlo né di metterlo a frutto; magari perché la loro cittadinanza non è pienamente riconosciuta dalla società; come avviene, in molti casi, per gli immigrati o i richiedenti asilo; che nei loro paesi di origine possono essere dottori, mentre nei luoghi in cui si trovano ad abitare sono costretti a svolgere mansioni che con la loro preparazione non hanno nulla a che fare. La Silent University li invita allora ad assumere il ruolo attivo di docenti impostando corsi e seminari su temi a loro scelta, in modo che queste competenze non vadano disperse. Le persone invitate offrono il loro tempo su base volontaria, e chiunque può partecipare alle lezioni iscrivendosi online. Si tratta dunque di un’iniziativa nata per dare voce a chi non ne ha e intesa a protrarsi al di là dell’intervento dell’artista, che ne ha semplicemente costituito l’innesco. Questa è la sfida di questo genere di progetti: l’arte, però, non sta solo agli artisti; sta invece nel rapporto che ognuno di noi riesce a instaurare con l’opera. Un rapporto diverso per ognuno e in ogni momento. Perché la voce degli strumenti che Pedro Reyes assembla, delle persone a cui Ögüt dà uno spazio ci possano raggiungere, occorre da parte nostra altrettanta attenzione, disponibilità all’ascolto. Quando queste condizioni si verificano l’opera costituisce effettivamente una straordinaria possibilità di apertura alla realtà e di arricchimento.