Il Personaggio
a cura di Germana Galli
Filosofo vignaiolo cresciuto in una tradizione familiare che nasce e si sviluppa nell’affascinante e produttiva valle del Tirino. Il padre architetto ha commercializzato il prodotto delle vigne, la madre, orgogliosa depositaria dell’arte della cucina, trasformava i pranzi in rito.
Germana Galli: Potresti distinguere se, nella tua formazione, ha avuto maggior importanza la cultura del cibo in senso ampio del termine o ha prevalso il cibo della cultura?
Luigi Cataldi Madonna: Ma guarda Germana io distinguo sempre tra lavoro scelto e lavoro ereditato: la filosofia è quello scelto e il vignaiolo è quello ereditato. Nel 1974 mi sono iscritto all’Università e nel 1975 papà fa la prima bottiglia, avendo l’idea geniale di disegnare – sì la prima etichetta era un disegno di papà – il guerriero di Capestrano, allora quasi completamento sconosciuto e oggi diventato simbolo dell’italicità. Insomma a quei tempi non pensavo minimamente di diventare un vignaiolo. Tra l’altro mi sento ancor oggi molto più uomo di mare piuttosto che uomo bucolico. Aiutavo papà che si divertiva a fare il Cincinnato. Era soprattutto un modo per stare con lui. È papà che ha fatto l’azienda nel 1970 (con i primi impianti nel 1968) e soltanto dopo qualche anno ha acquisito l’azienda di nonno, che vinificava sì (per Vittorio Ianni: uno dei primi imbottigliatori abruzzesi), ma non imbottigliava. Dal 1970 sono in azienda. E in tutti questi anni non ho perso mai una vendemmia, anche quando stavo all’estero (la prossima sarà la 41esima). E ben 35 vendemmie passate in cantina (dall’80 ero già io il responsabile). Sì perché della cantina mi sono innamorato subito e lo sono ancora. Vedere come l’uva diventa vino. Ancora oggi mi sembra una magia. L’azienda allora era veramente familiare: mio padre e io più ovviamente i giornalieri quando servivano. Comunque a parte il periodo della vendemmia fino al ‘90 la mia presenza è stata saltuaria: prima l’università e poi la Germania dove sono andato a fare ricerca per la prima volta nell ‘82 e sono rimasto fino al ‘88. Insomma in quegli anni la campagna non era certo il mio obiettivo principale. Nell’89, durante i lavori di ristrutturazione e ampliamento, io ero a Ginevra con una borsa di ricerca, ma papà ebbe nel frattempo un brutto incidente che lo costrinse per qualche mese a letto. Allora sono stato praticamente catapultato dagli eventi nella direzione della nuova Azienda.
Devo confessare che soltanto da quel momento ho cominciato a pensarla seriamente e mi sono accorto pian piano da quale incredibile territorio era circordata. Il forno d’Abruzzo così chiamano la valle d’Ofena, che in verità è un piccolo altopiano di 5 kmq che sale da 300 a 500 mt a forma di anfiteatro nel cui mezzo giace Ofena, pigramente sdraiata al sole. Ma è un forno particolare perché sta sotto l’unico ghiacciaio dell’Appennino, il Calderone (4 h di estensione e 25 mt di profondità: mica tanto piccolo poi!). Insomma un “forno nel frigorifero”: una condizione irripetibile per le uve del nostro territorio (Montepulciano, Pecorino e Trebbiano) caratterizzate da una maturazione tarda, mentre pessima per i cosiddetti vitigni precoci, che maturano quando a Ofena fa ancora troppo caldo e non ci sono escursioni termiche rilevanti come a settembre.
G.G.: La coltivazione e la vinificazione hanno subito profonde trasformazioni, in questi 20 anni, superando un’arte millenaria con la scienza e le nuove tecnologie e quindi il sapere trasforma anche il prodotto innalzandone la qualità.
L.C.M.: Mah! Riguardo alla coltivazione e alla vinificazione devo appellarmi al famoso detto di Socrate e dire che “so di non sapere”.
Ovviamente di esperienze ne ho fatte tante e credo anche di aver imparato molto da queste esperienze, ma più vado avanti e più credo che non ci sia “il vino”, ovvero non esiste un vino ideale, perfetto, un genotipo che potrebbe essere portato nell’Arca per salvare la specie. Dovrebbero essere cose scontate soprattutto nella cultura materiale (ma perché esiste un quadro ideale?); eppure non lo sono. Oggi ci sono degli attacchi durissimi contro quella che possiamo chiamare una viticoltura “ragionevole” che insistono sull’accanimento dell’uomo contro la vite, che continuerebbe con il maltrattamento e la manipolazione del vino. Favole fondamentalistiche. Esiste un approccio ambientalista alla vite e al vino, ma non esiste una via “naturale” al vino. l’uva e il vino sono prodotto di una cooperazione tra la vite e l’uomo da sempre; anzi la vite è “addomesticata” – in ultima analisi violentata – dall’uomo perché quella selvaggia produrrebbe quasi solo legno. E lo stesso vale per il vino: la sua destinazione naturale è diventare aceto: è l’uomo che impedisce questo processo e lo orienta verso la produzione di una bevanda eccezionale.
Sì una bevanda così considero il vino e questa è la mia filosofia. Basta con i vini da meditazione; per far questo preferisco leggere Cartesio o Sant’Agostino non bere un bicchiere di vino, che è preferibile bere in compagnia e con umore allegro – tra l’altro berlo da soli non sarebbe salutare. Il resto sono tutte corbellerie, cazz…. Il vino non deve essere qualcosa da masticare, pastoso, rotondo, ingombrante in bocca, ma deve – per dirla in dialetto – “calare” lungo (più arriva lontano più è buono), spigoloso (così te lo ricordi perché è negli spigoli/difetti che puoi trovare la sua specificità) senza invadere la bocca. Deve essere elegante e per essere tale non deve essere invasivo. Insomma nel vino preferisco la freschezza (che è legata all’acidità) piuttosto che il calore (che dipende dal grado alcolico). Ovviamente queste distinzioni non possono essere considerate rigidamente, si sfumano a seconda della tipologia di vino trattata.
Per applicare queste idee il lavoro inizia in campagna evitando rese eccessivamente basse, altrimenti l’uva si concentra già prima del suo arrivo in cantina. Senza o con poca sfogliatura per evitare ossidazioni già nell’uva. Vendemmia puntuale con grande attenzione per i valori acidici e la degustazione sensoriale. Uno dei nemici peggiori di questa concezione è la vendemmia tarda alla ricerca ossessiva di un alto grado zuccherino, che caratterizza ancora gran parte delle vendemmie italiane. Conclusione banale, ma spesso dimenticata: il vino è buono quando la bottiglia finisce, ed è buonissimo quando se ne ordina un’altra.
G.G.: Sei stato relatore della laurea honoris causa a Camilleri, uomo di grande cultura ed estimatore dei prodotti della vigna, che impressione ne hai riportato ?
L.C.M.: Sono stato contento e onorato di conoscere Camilleri e di poter fare per lui la laudatio. Ero molto emozionato sia perché la letteratura non è campo di mia competenza e sia perché sono un fan sfegatato del commissario Montalbano. Camilleri è un personaggio che non si dimentica (tra l’altro accanito fumatore una caratteristica che in questo periodo di falso proibizionismo me lo rende ancora più simpatico): un vecchio signore di altri tempi che sa combinare sagacia, ironia e buon senso. Mi ha impressionato il suo dinamismo mentale e la sua convinzione – inespressa in quell’occasione, ma palpabile – che sia ancora possibile una “sinistra” che sappia seguire il messaggio di Gesù (uomo) senza cadere nella trappola di Cristo (figlio di Dio).
G.G.: Come docente all’Università dell’Aquila sei a contatto costante con i giovani, è ancora valido, a distanza di molto tempo, quello che affermava il tuo maestro Karl Popper “televisione cattiva maestra”?
L.C.M.: Vedi Germana la televisione produce effetti letali (pensa al demenziale Grande Fratello). Conosco molti di questi programmi. Li vedo per cercare di capire le ragioni del perché li vede purtroppo mia figlia. Confesso che spesso non ci riesco. Ma per questo non bisogna demonizzare la televisione e Popper ha torto. Noi siamo nell’era dell’informatica e della tecnologia. Sono diffidente verso chi va o cerca di andare controcorrente perché temo sempre in un rigurgito irrazionalistico contro la scienza. E io sono old style: l’irrazionalismo produce sempre oscurantismo, prepotenza sociale, sostanziale immobilismo. La tecnologia in genere e la televisione non vanno rifiutate né subite. Vanno addomesticate – proprio come ha fatto l’uomo con la vite – allora potrà risultare una televisione “buona maestra”.