Economia della cultura in tempo di crisi
a cura di Antonella Muzi
Antonella Muzi: La storia secolare del nostro Paese ci ha dotato di radici robuste che ci sostengono ma che ci hanno reso spesso timorosi nei confronti del nuovo. L’Italia, rispetto ad altri stati europei, ha rivolto un’attenzione tardiva alla creatività contemporanea. Quali azioni occorre mettere in campo per guardare al futuro?
Michele Trimarchi: Ci sono vari strumenti tecnici da adottare ma non servono a molto se non si compie un salto culturale. Abbiamo un problema di approccio: per noi l’arte e la cultura sono etichette nobili e abbiamo una gran paura, una sorta di terrore di compiere azioni che possano essere una specie di profanazione. Occorre de-ritualizzare e desacralizzare l’arte. Gli inglesi non usano il termine “fruire” ma “extract the value” cioè: l’arte mi offre qualcosa, sta a me estrarne il valore. Questo approccio offre una traccia molto forte che noi ignoriamo completamente, e cioè che l’arte è relazionale. Invece il patrimonio in Italia è una sorta di offerta oggettiva, sta a me fare lo sforzo di capire. Il fantasma che si aggira sull’Italia rimane quello di Benedetto Croce ma cerchiamo di capire che non possiamo vivere di fantasmi.
A.M.: Per lungo tempo le istituzioni culturali hanno dormito sonni tranquilli perché alimentate da finanziamenti pubblici ampi e indiscriminati. Le cose non stanno più così: è evidente la sofferenza del mondo della cultura, vittima di tagli e di politiche fiscali che non incentivano gli investimenti privati. Quali sono in questo momento le strategie di intervento e i modelli di sviluppo per la cultura?
M.T.: Il finanziamento alla cultura in Italia è bassissimo ma soprattutto è dato male e con regole grottesche. Ha meccanismi censori e a dir poco opachi, e poi manca di un’infrastruttura: la spesa è in massima parte corrente, di fondi per investimenti non c’è traccia. In Kulturinfarkt, un recente libro tedesco tradotto in italiano, si spiega che la cultura è morta per colpa dei finanziamenti pubblici. Questo non vuol dire che vadano aboliti ma vanno centrifugati perché così non funzionano e ne abbiamo le prove: bisogna capire che in questo momento, formidabile secondo me, si stanno aprendo mille mercati che non sono soltanto quello diretto dell’acquisto ma anche i mercati secondari che riguardano prodotti o sottoprodotti culturali. Bisognerebbe avere il coraggio di resettare tutto, però purtroppo gli operatori culturali continuano a lamentarsi dei tagli senza capire che i tagli sono la punta dell’iceberg di un sistema malato.
A.M.: La cultura è patrimonio comune, del quale ognuno dovrebbe trarre vantaggio per il progresso individuale e collettivo, sebbene si assista anche a una progressiva diminuzione delle ore di insegnamento della storia dell’arte nelle scuole. Come far conciliare la vocazione educativa con quella di produzione degli utili?
M.T.: Se è vero che la cultura è un bene comune, ci toccano anche le responsabilità: occorrerebbe creare dal basso un’attivazione di processi di gradimento da parte di bambini, adulti, anziani e questo farebbe sorgere una percezione di unicità dell’esperienza artistica e quindi della sua indispensabilità. Se è così, siamo disposti a pagare. Se ciascuno facesse il suo piccolo enzima condividendo azioni, tempo, esperienze, si creerebbe anche un flusso di reddito. Le persone non entrano nei musei di arte contemporanea perché dicono di non capire e invece questa affermazione è da ribaltare: entrate proprio perché non capite! Segnalo una vicenda molto importante: il dipartimento di Scienze della Columbia University ha assunto una scrittrice trentaquattrenne come storyteller. Vuol dire che gli scienziati sono molto più avanti di noi operatori culturali: hanno capito che solo con lo storytelling si può avvicinare la gente, far capire cosa fai, e farglielo amare. È così banale ma fa così paura perché sottrae il potere iniziatico di chi pretende di sapere cose che gli altri non potranno comunque capire, che è un errore di grammatica radicale!
A.M.: Quali sono le strategie per dare vita alle istituzioni teatrali e per alimentare lo spettacolo dal vivo in generale, in modo da conciliare il principio di democrazia con quello di selezione?
M.T.: Vale sempre il principio dell’infrastruttura ma è anche vero che lo spettacolo dal vivo è tra le poche cose che si possono riprodurre anche attraverso il digitale e con uno sforzo economico – diciamo – casalingo. Lo spettacolo dal vivo dovrebbe prima mettersi a riprogettare l’offerta, poi vedere qual è il fabbisogno. Altra cosa significativa: in Italia non c’è un teatro ecosostenibile. Basterebbe poco e produrrebbe risparmi giganteschi. Inoltre non possiamo più reggere un regime giuslavoristico come l’attuale: non è vero che l’orchestra deve essere composta di professionisti assunti a tempo indeterminato, potrebbe essere un’impresa autonoma, pagata a prestazione, e l’effetto finale sarebbe anche la riduzione del prezzo del biglietto. Semplificare è lo sforzo vero, senza velleità. In Gran Bretagna nei giorni scorsi la mostra Manet: portraying life alla Royal Academy of Arts è stata trasmessa nei cinema.
A.M.: Ma in questo modo non c’è il rischio che il pubblico si affezioni alla riproduzione e perda l’interesse per l’originale?
M.T.: È un problema di massa critica: dopo aver ascoltato svariate volte un disco voglio vedere l’orchestra, voglio vedere il dipinto, cioè ho un bisogno diverso. C’è un’ansia di condivisione che è così connaturata all’esperienza culturale che basterebbe intanto accreditarla e poi facilitarla. Penso a questi processi anche per arrivare non solo all’ottimizzazione della spesa pubblica ma anche all’enfatizzazione delle opportunità di mercato.
A.M.: Veniamo all’Abruzzo, dove sei stato presidente del Teatro Stabile d’Abruzzo tra il 2008 e il 2009. Qual è il nesso che le comunità e il territorio abruzzese devono stabilire tra imprenditorialità e cultura?
M.T.: Ho trovato un teatro stabile come tutti quelli che ci sono in Italia, da Campione d’Italia a Pantelleria: teatri bloccati da zavorre burocratiche, resi paludosi da una struttura delle regole che facilita il sindacalismo, protegge l’esistente e non si occupa dell’eventuale, e questo mummifica la situazione. In Abruzzo c’è il problema tipico di tutte le regioni d’Italia che è il campanilismo: io mi sono trovato, grazie a una collaboratrice del territorio, a entrare in contatto con altre organizzazioni culturali abruzzesi stupite che il Teatro Stabile avesse voglia di parlare con loro. La cultura, come tutte le strutture del mondo, ha bisogno di sinergie, competere è un’azione distruttiva tipica del capitalismo manifatturo, chi compete è già morto. L’altro aspetto positivo forte dell’Abruzzo è che c’è una catena verticale molto bella di radicamento nel territorio con una capacità di proiettarlo verso il futuro e c’è una buona orizzontalità, cioè si fa comunità. È stata un’esperienza bella e torno in Abruzzo sempre con grande piacere.
A.M.: L’Aquila si candida al ruolo di Capitale Europea della Cultura per il 2019: quale modello di sviluppo per la città dopo il terremoto? In che modo la ricostruzione può produrre valore culturale?
M.T.: In questo momento stiamo cambiando mondo: il capitalismo manifatturiero è finito insieme al paradigma economico di fine ‘700. È finito il paradigma dell’uomo razionale, del profitto: siamo cresciuti con i valori di competizione, efficienza, eccellenza e dimensione. I valori che stanno entrando adesso, già operanti nell’agire piuttosto che nell’etichetta istituzionale, sono morbidezza, relazione, prossimità e saper fare. Da questo punto di vista l’arte ha una cascata di prodotti, servizi, comportamenti connessi al crafting quindi forse la cultura abruzzese potrebbe non solo attivare ma prendere stimolo dall’artigianato. I prodotti di conoscenza sono in questo momento i più importanti del paradigma economico. L’importante è il processo. Per connettere ricostruzione e cultura occorre una international call for ideas, creando una rete di artisti, narratori, scrittori, poeti, architetti purché non archistar, perché non occorre la logica del paracadutare l’opera massima. Bisogna riattivare L’Aquila traendone ispirazione: è una città che ha cicatrici e le cicatrici raccontano la storia, è una mappa simbolica.
A.M.: “L’uomo che finisce di costruire la sua casa muore”, recita un antico adagio orientale: gli aquilani sopravvivono, a quattro anni dal terremoto, in una condizione di perdita dell’identità individuale e collettiva. Da dove partire per ricostruire un’identità in frantumi?
M.T.: L’Aquila poteva essere un modello pilota per l’Italia; ora deve creare una metanarrazione, raccontando la se stessa che non è più quella di prima ma sta diventando quella di dopo, senza rendersene conto. Occorre creare processi di consapevolezza di quello che c’è, sebbene ci pugnali il cuore. L’Aquila in questo momento è un palinsesto incredibile di informazioni di tipo strutturale, estetico, simbolico, quindi eloquentissimo: estraiamo quello che dice ora, senza dimenticare quello che diceva. La cultura dell’Aquila è se stessa. Ora.