Il tavolo come una piazza, il bicchiere come un palazzo
a cura di Nicla Cassino e Giovanni Di Bartolomeo
Architetto, docente e compasso d’oro 2014 con la lampada sampei: dalle architetture in-sostenibili del deserto, alla luce come stato emotivo, lo intervistiamo nel suo studio e tra un progetto internazionale, un mobile e una lampada ci racconta il legame con la quotidianità, la necessità di conoscere le persone e il ruolo della curiosità nel progetto.
Nicla Cassino & Giovanni Di Bartolomeo: Innanzitutto con chi stiamo parlando? Con un architetto o con un industrial designer? La città o il cucchiaio?
Enzo Calabrese: Con un signore il cui nome è Enzo Calabrese! Mi imbarazza dire architetto o forse no. Mi definisco architetto perché un architetto fa tante cose. Il modo in cui guardo e penso a un oggetto è lo stesso che ho quando mi commissionano il progetto di un albergo. Il design è iniziato come un’esperienza parallela a quella dell’architettura. Nasco facendo o meglio provando a fare l’architetto e ci provo ancora. Non lo dico per falsa modestia, è che davvero vivo tutti i giorni con l’angoscia di non riuscire a fare al meglio questo mestiere. Per fuggire, di notte, ai problemi dell’architettura, ho iniziato a pensare a oggetti di design. Penso che il design sia una piccola architettura, che non è un’architettura ridotta, è solo una piccola architettura che inventa lo spazio se sta nello spazio, che sia essa una luce o più in generale un oggetto. Anche una forchetta o un bicchiere devono allestire un paesaggio quasi urbano se si considera il tavolo come una piazza. In definitiva mi piacerebbe diventare un architetto.
N.C.-G.D.B.: In che momento ci si rende conto che un progetto funziona? Mi riferisco alla lampada Sampei, progettata con Davide Groppi, ma non solo.
E.C.: Quando con Davide abbiamo visto l’immagine finale del progetto abbiamo pensato che fosse davvero bella, era solo una linea, ma era bella. E poi la vera conferma è arrivata, non tanto dai premi, ma dal mercato. Il mercato non è obbligato ad acquistare un prodotto. Quando è nata, il materiale è venuto per caso, io ero a decathlon e mio figlio ha rovinato una canna da pesca, così l’ho comprata e portata a casa. Ho tolto la carta colorata che la avvolgeva, l’ho vista ed ho pensato “accidenti questa fa paura, è lei”. Stavamo lavorando da due anni a Sampei, ma allora non si chiamava ancora cosi, avevamo provato diverse soluzioni che sembravano non funzionare. Era sempre troppo goffa o troppo rigida o troppo sottile. E invece la canna da pesca era sottile, ma funzionava. La puoi piegare in due e non succede nulla. Poi abbiamo lavorato un altro anno e mezzo alla base e al corpo illuminante. Alcuni oggetti sono come film indipendenti. Sampei è stato fin da subito un oggetto indipendente, catturava le riviste e la folla.
N.C.-G.D.B.: La luce è un aspetto importante nella sua ricerca. In che modo la luce e la sua percezione influenzano il modo in cui viviamo uno spazio?
E.C.: Io abito davanti al mare e dico sempre a tutti che non lavoro perché la luce riflessa della mia abitazione esposta a nord mi mette di buon umore. Vedo il sole che illumina le cose e creando ombra gli conferisce un’anima. È bello vedere la luce e riceverne il beneficio senza provare fastidio. Sono cresciuto a Brindisi abitando a piano terra e di fronte alla mia abitazione, a due metri di distanza, avevo un palazzo di otto piani. Sono cresciuto senza alcun tipo di luce, neanche quella riflessa. Ho inseguito la luce sempre ed ho capito che è un desiderio e uno stato mentale. Questo desiderio è diventato una ricerca. La luce è bellezza, conferisce senso alle cose e qualità allo spazio. La luce stacca completamente il senso di un oggetto dalla sua fisicità e lo porta a essere dimensione, sensazione e stato dell’anima.
N.C.-G.D.B.: Lei è anche docente e ogni anno alleva giovani architetti coinvolgendoli nel suo studio. Quale qualità secondo lei dovrebbero avere i ragazzi per diventare architetti oggi? È sufficiente avere buone idee?
E.C.: No, anzi, ritengo che sia il contrario. Lo vedo direttamente perché ho la fortuna, come docente, di frequentare ragazzi molto giovani. Ogni anno vivo un cambio generazionale e culturale che solo facendo questo mestiere puoi davvero interpretare, non c’è altro modo per farlo. È come avere uno specchio ampio di diverse culture. Gli unici ragazzi verso i quali sento che sta accadendo qualcosa sono quelli curiosi, ma sono pochissimi. Ci sono studenti di architettura che non hanno mai aperto un giornale. Internet mi permette di mandare un link con pagine e progetti che seleziono appositamente per loro sperando che si incuriosiscano e che ne guardino altri partendo da quello da me segnalato, questo purtroppo non accade quasi mai. Forse due studenti su ottanta, all’interno dei miei corsi, lo fanno. A volte fingendo di dover scrivere un libro chiedo quanti di loro hanno letto un articolo digitale o cartaceo nell’ultimo anno, pochi lo hanno letto, comprato una rivista quasi nessuno. Allora ti chiedi di chi sia la colpa. Qualcuno cambia, ma pochissimi su un numero molto elevato.
Posso innescare in loro un meccanismo di curiosità, ma cambiare il loro carattere no.
N.C.-G.D.B.: “Sustain what’s – L’equivoco dell’architettura sostenibile” è il titolo di un suo libro pubblicato nel 2012. Ma l’architetto è un abitante sostenibile della Terra?
E.C.: Il titolo è chiaramente una provocazione, una licenza poetica. Sustain what’s nasce da una serie di esperienze professionali, come il progetto di una città completamente sostenibile per il governo di Abu Dhabi. Il progetto venne poi utilizzato per la città di Masdar, la prima città al mondo da costruire totalmente ad emissioni zero, era un progetto talmente costoso che dopo aver realizzato la prima parte si è fermato. In quel caso si trattava di una sostenibilità insostenibile. Alcune operazioni sono molto affascinanti, ma deliranti da questo punto di vista. Io ovviamente sono a favore della sostenibilità, ma bisogna capire di cosa
stiamo parlando. Penso che anche la bellezza debba essere sostenibile, che il paesaggio debba esserlo, ma non dal punto di vista del verde, che chiaramente piace a tutti. Paesaggio sostenibile significa anche la capacità di non avere alberi lì dove non servono. A Malmö in Svezia è stato fatto un esperimento: una zona industriale è stata trasformata in una città.
Ha funzionato perché sono stati in grado di pensare a una serie di cose riconoscibili, che si fanno alla velocità dell’uomo. La macchina non la prendi perché non ti serve, non perché è vietato e la prendi solo la domenica per fare una passeggiata in campagna.
N.C.-G.D.B.: Ha mai progettato qualcosa di inutile?
E.C.: Parli di oggetti o di edifici? Di oggetti si, c’è la collezione The Pebbles che all’interno ha un oggetto che si chiama addirittura Boh, mi chiesero a cosa servisse e risposi: “Boh, non lo so”! Eppure si tratta di un progetto esposto al Moma di New York.