In occasione della scomparsa della grande critica d’arte, morta a un giorno di distanza dal marito Enzo Mari, la ricordiamo riproponendo un’intervista che ci concesse qualche anno fa
A cura di Massimiliano Scuderi
Massimiliano Scuderi: L’argomento che vorrei trattare con lei è quello del rapporto tra arte e vita, ovvero su quelle figure che, come lei, stigmatizzano un atteggiamento che va oltre i confini del mestiere, nel suo caso la critica d’arte. Penso che lei rappresenti un modello e che sia una di queste figure emblematiche. Allo stesso modo il regista Silvano Agosti.
Lea Vergine: Silvano Agosti è un nome che mi ricorda la primissima gioventù. Studiava con due miei amici al centro sperimentale di cinematografia di Roma, parliamo dei primi anni sessanta o fine anni cinquanta. È una domanda la sua?
M.S.: Preferirei avere un dialogo con lei.
L.V.: Certo. Direi che nelle persone che non hanno cancellato la dimensione umana, esiste questo intreccio con mille problematiche; certo che c’è. Poi, come lei sa, ci sono persone che cancellano questa attitudine naturale. E allora abbiamo casi di monomania, di paranoia, di delirio ecc. molto frequenti nell’ambito dell’arte, sia da parte degli artisti, sia da parte dei critici. Già gli artisti sono degli ammalati, ma forse già lo sa?
M.S.: Ho avuto la fortuna di lavorare con Vito Acconci.
L.V.: Ah bè, un caso clinico! Parlo a livello di persone più controllate che sono già dei forti nevrotici. Acconci è uno psicotico, un borderline! Quando lavoravo al libro il corpo come linguaggio (1973) era già così, penso che sia anche peggiorato, come capita a tutti noi con l’età.
M.S.: Non saprei…
L.V.: Ora non ha fatto la scelta dell’architettura?
M.S.: Si, ma sono convinto che quello rappresenti solo una fase per lui, così come la scrittura all’inizio della sua carriera. Se a un certo punto dovesse dirmi che sta facendo un progetto di bio genetica, non mi sorprenderebbe in quanto quello è proprio il suo percorso.
L.V.: Naturale.
M.S.: Facemmo un dialogo per Flash Art in occasione della mostra di Rivoli a Torino.
L.V.: Fui invitata a parlare, in quella occasione, della body art, anche di lui…
M.S.: Mi sembra che lei parlò dell’Azionismo Viennese?
L.V.: Si dell’Azionismo ma non solo: da Gina Pane e Gilbert and George fino ai più giovani… Gli artisti sono psicotici più che nevrotici, ma ciò che è più grave è il fatto che ci siano tanti critici d’arte che poi scrivono su queste follie, e scrivono delle loro follie che riferiscono a questo mondo già così disperato e autoreferente come quello degli artisti.
M.S.: Questo mi piacerebbe approfondirlo con lei. Quindi per lei il mondo dell’arte è autoreferenziale?
L.V.: Al novanta per cento. Tutti io, io, io… ad un certo punto, non ne può più. Non c’è nessuna attenzione all’altro, da Jacobello del Fiore in avanti.
M.S.: Ad esempio lei ha lavorato con Fontana?
L.V.: Ho scritto un testo per la presentazione di una mostra di Fontana a Napoli nel ‘62 o ‘63.
M.S.: Non l’ha mai incontrato?
L.V.: Si. Mi scrisse una lettera bellissima che conservo. Sarei dovuta andare a prendere un’opera che mi aveva dedicato. Quando ero pronta per andare a prenderla (faceva troppo caldo, ed io patisco il caldo) Fontana era qui sul lago… insomma lui è morto ed io sono rimasta senza il mio Fontana. Era un uomo straordinario, di grande generosità. Non era autoriferito, non era una persona delirante di sé medesima. Era una persona aperta alla vita, agli altri. Una persona che si alzava presto la mattina, andava a prendersi il caffè nel tale bar, poi leggeva il giornale, poi intanto che faceva queste cose, parlava con tutti. Cioè era ancora un umano! D’altra parte gli artisti degli ultimi trent’anni sono massacrati dal sistema dell’arte che è diventato un sistema di mercato. Quando lei sente che se un autore giovane dopo tre anni non è andato nella tal collezione o non ha avuto la mostra nel museo, viene scartato dal mercante e avanti un altro! È il criterio del broker.
M.S.: E in tutto questo quanto conta vedere l’opera?
L.V.: In che senso? La significazione dell’opera dice?
M.S.: Si. Faccio un esempio: molte volte le ricerche degli artisti, ad esempio dei giovani artisti, vengono ridotte a sole immagini e considerate per tali, senza entrare nel corpo del lavoro. Spesso i parametri di valutazione delle opere sono dettati da trend e mode, con la conseguenza che vengono sottovalutate figure che meriterebbero una maggiore attenzione. Lei che ha una grande esperienza in tal senso forse me lo può spiegare.
L.V.: Sa’, è tutto cambiato e cambia non più di decennio in decennio, ma di tre anni in tre anni. Mentre una volta gli artisti erano trecento, ora sono tremila e trecento, tutti vogliono fare gli artisti. Anche perché così non si studia e si fa prima. Anche il critico d’arte contemporanea fa prima se non studia un po’ di Latino e di greco e si da’ solo una spolverata di inglese. Tutto questo porta uno spaesamento. (Telefonata della figlia Meta) Ecco, vede natura e cultura, i figli e Kounellis, i nipoti e Cattelan. Ma è molto utile per chi fa questo lavoro. Non bisogna avere argini, avere chiusure nei riguardi di tutto quello che sta intorno, occuparsi dell’amico che sta male, occuparsi di chi ha bisogno, prestarsi alla cosidetta rottura di scatole, entro certi limiti naturalmente. Trovo che l’attenzione all’altro, agli altri, che sia un figlio o un conoscente sia una specie di dovere. Quello per i figli è un diritto e un dovere al contempo. Quello per gli altri è un dovere che l’essere umano ha, soprattutto se vuole occuparsi d’arte. Come fai ad occuparti d’arte se quando vai al gabinetto non rimetti al suo posto l’asse, se ti metti le pallettes con le farfalle nere sulla pancia a settant’anni e vai ad un convegno alle ore undici della mattina? Oppure ti conci con quei terribili cappelli, quelli con la visierina presi dall’America. Tutto questo fa parte del bagaglio estetico di una persona, cioè liberarsi da queste cose. L’opera oggi la guardano in pochissimi. Direi che quelli che la guardano con maggiore partecipazione e attenzione sono proprio i deprecati da un certo punto di vista collezionisti. Credo che, oggi come oggi, siano loro i più appassionati. Perché vede, ho visto persone incredibili comprare opere d’ arte. Ricordo una volta, qui a Milano, in una galleria c’era un signore, chiamiamolo così, completamente analfabeta nel modo di esprimersi. E quando è uscito ho chiesto al gallerista: Ma chi è, che fa? Che viene a fare qui? E lui mi rispose: Signora, ma quello è il mio più grande collezionista! In che senso? Chiesi io. E lui precisando: Nel senso che lui compra tutto! E poi? Faccio io. E poi,rispose il gallerista, ha una magnifica stanza di sicurezza, come lei sa nelle banche ci sono le cassette ma anche le stanze, mette lì tutto e la chiude perché gli fa schifo. Di guardare quella roba, di avercela in casa. Però è sicuro che così ha investito bene i suoi soldi. Questa è qualcosa che trent’anni fa non sarebbe mai avvenuta. Non sarebbe mai passato in mente a nessuno.
M.S.: Lei vuole sostenere che ciò non avvenisse già allora?
L.V.: Che io sappia no. Ho visto ben altre passioni trent’anni fa.
M.S.: Continuando tra arte e vita, e senza banalizzare le sue parole, qual è l’esperienza più forte che ricorda? Mi sembra di capire che lei non distingua l’arte dalla vita.
L.V.: Nella mia vita succede di tutto, non so’ o non posso tenere distinte le due cose. Posso dire di esperienze forti davanti a un opera d’arte o nel privato… ma non mi viene niente in mente che accomuni tutte e due, poi forse ci sarà stato, non lo so. Gli altri cosa le hanno risposto?
M.S.: No, quest’intervista è rivolta solo a lei, ma ammetto che questa può essere anche una domanda molto stupida.
L.V.: Non esistono domande stupide, solo risposte stupide. In alcune persone questi ambiti sono distinti. Potrei descrivere esperienze che mi hanno molto impressionato. Se lei parla nel senso che ti trovi davanti ad un’opera che ti toglie il respiro, che rimani come strangolata da questa cosa che vedi. Cose che mi sono successe: da Bosch a Urs Lüthi, che si esponeva a Roma con una volpe al collo, un cappellino di velluto, fumando una sigaretta, mettendosi e togliendosi i guanti.
M.S.: Paragonabile ad esempio alla maternità o ad una gravidanza?
L.V.: Ah! Lei mi dice la gravidanza e mi fa venire in mente un episodio ridicolo. Ridicolo e crudele al tempo stesso, tipico di quella disattenzione agli altri di cui le dicevo prima. Ero in gravidanza al settimo mese, quindi in un momento molto delicato, e c’era qui a Milano Marina Abramovic che faceva la sua prima mostra in Italia da Luciano Inga Pin. Ricordo che lei telefonò dicendo di andare in galleria, era uscito il mio libro da poco, le dissi di essere incinta e di essere quasi in procinto di partorire quindi della mia impossibilità di andare alla mostra. La mattina dopo me la vedo arrivare a casa con i due critici jugoslavi che l’avevano portata in italia e pretendeva (con un coltellaccio che si era portata dietro) di rifare a casa mia la performance.
M.S.: La performance Rythm 10?
L.V.: Si, quella. Fu una cosa che mi impressionò molto, nel senso di riflettere sulla figura dell’artista che non tiene conto dell’altro in nessun modo. È solamente preso da questa iperbulimia di sé medesimo, capisce? Non voglio dire nulla di male contro Marina Abramovic, ma è abbastanza tipico questo ignorare le esigenze, i bisogni di un’altra persona. Gli artisti questo disturbo del comportamento non solo ce l’hanno, ma lo coltivano… Quindi un artista che mi viene in mente è Enrico Castellani. Castellani è un uomo di pochissime parole, saggio, mite e abbastanza spiritoso. Attento a tutto quello che accade intorno a lui… una persona straordinaria, un po’ com’era Fontana.
M.S.: Volevo ritornare sulla questione dei collezionisti come persone le uniche persone ora come ora …
L.V.: Me lo chiedo, penso, non ne sono sicura. Vedo anche strani comportamenti. Escludiamo il signore che teneva tutto chiuso nella stanza di sicurezza della banca… ma ci sono delle persone che hanno questa passione, gente che guadagna poco, che fa i salti mortali per riuscire a collezionare.
M.S.: Capisco quello che dice. Conobbi un collezionista che faceva il ferroviere.
L.V.: Aveva la malattia dell’arte.
M.S.: Ad esempio, com’era Panza di Biumo?
L.V.: Era una persona per me incomprensibile. Comprava solo autori americani. A Milano si diceva che avesse comprato anche il titolo di Conte.
M.S.: Ultima domanda che le volevo fare è sul luogo in cui ci troviamo.
L.V.: Sul luogo, cioè Milano? Vuole sapere come io sia finita in quello che ora è una parodia di città?
M.S.: Sì. Riformulo la domanda. Com’è finita a Milano?
L.V.: Per amore, per una passione. Sa, la passione non è cieca come dicono, è miope! Quando sono venuta qui nel sessantasei… dal sessantasei, agli anni ottanta, Milano era comunque una città. Non la metropoli internazionale che ha sempre avuto la stupidaggine di pensare di sé stessa. Una città dove avvenivano molte cose: gli editori erano molto diversi da quelli di oggi, anche i mercanti, le istituzioni funzionavano. Non si vedevamo mostre schifose come quelle che si sono viste negli ultimi trent’anni. Quindi non era poi così male. Era una città brutta ma comoda, tutto funzionava. E poi mano mano siamo arrivati all’oggi che veramente è terrificante. Io sarei andata via da circa vent’anni. Ma l’oggetto della mia passione non si stacca dal tavolo di piazza Baracca e quindi sono rimasta qui dov’è nata nostra figlia e dove è nato anche nostro nipote. Sà, io ho un nipote di quattro anni che mi diverte molto… lei ha bambini?
M.S.: No
L.V.: Glielo chiedo perché ha una certa età e ne dimostra dieci anni di meno e le dico che almeno uno va fatto.
M.S.: Va bene, magari seguo il suo consiglio e ci penso.
L.V.: Realizzi, altrimenti il bambino si trova un padre vecchio. Insomma si dia una mossa! Questi bambini sono una meraviglia, hanno un rapporto col linguaggio. Che è strepitoso. Poi vanno alle elementari e vengono castrati dalla scuola, ma per adesso sono incredibili. Cosa c’entra questo con arte e vita?
M.S.: Per me è importante.
L.V.: Però non rifarei oggi questo lavoro, non farei più il critico d’arte contemporanea. Farei cose che risultino realmente di aiuto agli altri, il medico di frontiera, quello che si presta a soccorrere.
M.S.: Tipo Emergency insomma.
L.V.: Più passa il tempo e più si capisce come il rispetto e l’attenzione agli altri sia dovuta e da’ anche un senso alla vita.
M.S.: Sono d’accordo con lei. Spesso mi sento un outsider per questo, ogni volta che mi interrogo e mi metto a ragionare sulle cose e dico tra me e me: forse non è tutto così.
L.V.: Certo che l’arte non è il valore assoluto. È uno dei valori che ti fa capire cos’è la vita, se lo becchi nel modo giusto. Altrimenti finisci nel delirio di te, come tanti.