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Alfredo Pirri

ottobre 2011

Da una conversazione con Alfredo Pirri
su Nicola Santoleri

a cura di Massimiliano Scuderi

Capita di sentire parlare di imprenditori illuminati ovvero di coloro che si  esprimono con impegno civile nel fare impresa, convinti di contribuire alla realizzazione di una società migliore e di produrre conoscenza. Ma essere un imprenditore illuminato significa soprattutto essere una persona che si nutre di lumi, di cultura, di energie vitali in grado di realizzare, attraverso il fare, un’idea che è estetica ed etica prima ancora che un prodotto.

Così è stato nel caso di Nicola Santoleri. E il suo incontro con Alfredo Pirri si può definire come la reciproca scoperta di due personalità accomunate dall’appartenenza ai valori di un moderno umanesimo. A questo si aggiunge, per entrambi, la consapevolezza di un saper fare legato all’esperienza creativa vissuta nel quotidiano. Che tutto sia avvenuto in Abruzzo, piuttosto che in un altro luogo, forse poco importa; ma è vero anche che proprio questa terra, trent’anni prima, fu il luogo eletto da Joseph Beuys per lavorare ad un’idea di libertà, per affermare la capacità dell’uomo di trasformare le cose facendo esprimere la loro energia più profonda e dando un valore speciale ad ogni gesto. 

Per Alfredo e Nicola credo sia avvenuto qualcosa di simile e che l’incontro abbia nutrito la loro consapevolezza di un comune sguardo sul fare e di un’energia, come testimoniato generosamente dagli interventi site – specific di Alfredo: segni lasciati in questo palazzo a Guardiagrele che rappresenta, per come  geneticamente strutturato, parte dell’assetto urbano del paese. Le sculture s’inseriscono tra le stratificazioni storiche della casa, dove libri, ceramiche, bottiglie, mobili s’azzuffavano in studioli e camere fino al tempo della recente riapertura. Una casa abbandonata, ma  piena di forze vitali capaci di mettere in atto un processo virtuoso che può rinnovarsi nel tempo.

L’intervento di Pirri all’interno di questo edificio storico, di proprietà  ab urbe condita della famiglia Santoleri, nacque nel 2001 quando avvenne il primo incontro tra i protagonisti di questa storia. Il progetto, rilanciato più tardi nel 2011, si articola in un percorso che dalle cantine sale su per i due livelli della casa. Da quello della strada parte una lunga processione di bottiglie vestite con mantelli di un materiale nero simile a quello dei pad per i computer, che riverberano il loro interno rosso su mattonelle quadrate di pietra bianca della Majella, poste in fuga tra le grandi botti. Subito dopo, attraverso una corte interna, si giunge al secondo livello dove alcune installazioni  di minori dimensioni dialogano con l’architettura del palazzo. Punto apicale dell’intervento, un salottino borghese al piano superiore in cui suppellettili e oggetti di famiglia vengono disposti sui mobili, intervallati da frammenti di vetro retro-colorati. Conclude il percorso il grande salone dalla volta affrescata color rosso cinabro, con i divani coperti da lenzuola candide e un rilievo di farina bianca su di un tavolino al centro. Quest’ultima stanza si apre su un giardino pensile, luogo di celebrazione del  ricordo dedicato alla figura di Nicola Santoleri  e del dialogo tra Alfredo Pirri e chi scrive, curatore dell’incontro.

Io non lo conoscevo (appendice all’introduzione).

Per quanto mi riguarda, la vicenda legata a questo incontro nasce da una coincidenza misteriosa. Non conoscevo Nicola Santoleri di persona, sebbene alcune ragioni, nella mia vita, mi inducessero a saperne di più e soprattutto a capire quale lascito importante, umano e culturale, potesse rappresentare la sua figura oggi.

Tutto cominciò quando incontrai dopo anni Alfredo Pirri a Faenza, in occasione del Festival dell’Arte contemporanea. Parlando delle nostre passioni e delle nostre reciproche curiosità, ad un certo punto, venne fuori il nome di Nicola Santoleri e della casa di Guardiagrele di cui nulla conoscevo se non l’ immagine stupenda di un intervento del 2001 fatto da Alfredo. Di lì a poco lasciai Faenza per tornare a Pescara. La sera, a cena con amici, mi trovai per uno strano caso seduto accanto a Giacomo Santoleri, il fratello di Nicola, che non avevo mai visto prima e che mi fece subito simpatia. Lui mi raccontò la storia di quella casa, parlandomi di Alfredo, di Nicola e di quello che era successo. Chiamai la sera stessa Alfredo e decidemmo tutti insieme, con i figli e i fratelli di Santoleri, di riaprire la casa di Guardiagrele e di riprendere il progetto che sembrava allora abbandonato. Il resto vien da sé.

courtesy Massimo Camplone

intervista
Alfredo Pirri e Nicola Santoleri

a cura di Massimiliano Scuderi

…La verità continua ad agire in alcune persone, soprattutto in quelle che hanno la capacità di renderla non arrogante, non violenta, anzi la offrono con amore, com’era capace di fare Nicola.

Massimiliano Scuderi: Com’è avvenuto il tuo incontro con Nicola Santoleri?

Alfredo Pirri: Nel 2002 si svolgeva in Abruzzo una mostra biennale dedicata al rapporto fra arte e natura organizzata da Antonio De Laurentis, un artista che ha dedicato molto impegno alla realizzazione di opere che dialogano col paesaggio. Quando lui mi ha chiesto di parteciparvi ho risposto che la cosa che m’interessava di più della natura era il vino. Non ero cioè interessato ad interagire con quello che normalmente si intende per “natura”, gli alberi, i fiumi, etc.. m’interessava invece fare un lavoro su come la natura fosse manipolata dagli uomini fino a diventare qualcosa di straordinariamente sofisticato. Sono, quindi, arrivato a conoscere Nicola Santoleri grazie a questo progetto e dopo aver visitato altre cantine.

M.S.: Questo punto relativo alla scelta, lo trovo dirimente rispetto all’incontro e rispetto a quello che avvenne successivamente. In questa scelta io ritrovo qualcosa del tuo lavoro di artista.

A.P.: Rimasi molto colpito dalla cantina di Nicola, in me c’è stata come un’illuminazione improvvisa che mi ha spinto a dire immediatamente “voglio fare qui e con lui il mio lavoro!”. La cantina mi apparve un posto quasi religioso, che diceva in maniera franca come si dovesse fare il vino e del suo rapporto col tempo: nessuna barrique, il vino a invecchiare in grandi botti divise per annate, era come immergersi dentro un movimento temporale in cui la trasformazione del vino produceva un mormorio di frasi e poi, sopra la cantina, la casa abbandonata, ma nel senso più radicale del termine. La casa era ai miei occhi la scena di una tragedia perché era il luogo da dove delle persone erano andate via all’improvviso, senza portarsi dietro nulla, come forse si è fatto solo durante le guerre, quando il nemico è alla porta …. Così, almeno, appariva a me. Un luogo abbandonato e rimasto intatto a lungo, come per una fuga, tant’è che c’erano addirittura tavoli apparecchiati, lenzuola sui letti. Questo era straordinario, perché tutto ciò la rendeva ancora più vuota, ma allo stesso tempo piena di segni, come se le persone dovessero tornare da un momento all’altro. E probabilmente questo era anche il desiderio di Nicola.

M.S.: Era la casa della madre?

A.P.: Non so, per me era la casa Santoleri. All’ingresso c’era una mappa antica di Guardiagrele con in evidenza i confini dei possedimenti familiari, che coincidevano quasi con i limiti stessi del paese. L’incontro con Nicola fu davvero straordinario. Aveva vivacità intellettuale, una grande curiosità e un amore per quello che faceva. Anche una straordinaria capacità di improvvisazione, che mi colpiva molto. Non voglio dire che facesse il vino in maniera improvvisata, tutt’altro, era molto meticoloso, però stava sempre “addosso” al vino, lo seguiva, aveva sempre un’ansia che lo portava a decidere sul momento il da farsi. E tutto questo lo rendeva molto simile a un artista.

M.S.: Mi piace questa definizione che ne dai tu, come se fosse un espressionista del vino.

A.P.:
Un po’ è vero. Poi quello che me lo rendeva simpaticissimo era il suo legame con la vigna. Il ciclo della sua competenza e del suo impegno era completo, partiva dalla potatura, per giungere al vino e tutto questo era straordinario. Questa per me è stata una lezione, non solo rispetto al vino, perché ho capito il valore della pazienza, del programma, di come un progetto debba essere soggetto continuamente a delle verifiche, a delle intuizioni momentanee.

M.S.: Questi mi sembrano tratti anche del tuo lavoro, l’idea del programma mi sembra essere importante per te. Il tempo che lavora e che trasforma è un agente previsto.

A.P.: Si, è vero. Per questo mi affascinava Nicola, perché era un grandissimo produttore senza essere un industriale significando qualcuno che fa programmi senza badare ai particolari imprevisti che potrebbero essere presi in considerazione per migliorare il prodotto o agli aspetti umani. Se fosse necessario definirlo, direi che era un grandissimo artigiano proprio per la sua capacità di dominare la materia direttamente con le mani. E nel mio lavoro effettivamente è lo stesso, c’è sempre una programmazione, però questa è destinato a non prevalere sull’opera finita. Quando un’opera è completa, io vorrei che la preparazione sparisse, non sopravanzasse l’opera. Vorrei che l’opera fosse qualcosa di libero anche dall’autore, dalla sua presenza soverchiante. Io guardo il mio lavoro concluso e comprendo che non mi appartiene più, è destinato agli altri, a essere valutato, interpretato, in un certo senso anche modificato dagli altri attraverso lo sguardo. E mi piace molto l’interpretazione che gli altri danno del mio lavoro e a volte mi fanno scoprire cose, alle quali io non avevo mai pensato.

M.S.: Invece il lavoro di Guardiagrele in che consiste? In quanto è un’opera sempre aperta a nuove interpretazioni, che si adatta al tempo come il vino e che si rafforza di anno in anno, nelle due occasioni del 2001 e del 2011,  ma direi anche oltre.

A.P.: Innanzitutto erano una serie di lavori, come un corpo composto di vari elementi che occupavano (e occupano tutt’ora) gli ambienti della casa e della cantina caratterizzandosi in base agli ambienti. Quello per la cantina era pensato per poterlo rimontare di volta in volta assecondando le operazioni di vinificazione, quindi un’opera stabile nell’idea ma mobile nel tempo. E’ immaginato come un percorso, una strada tra le grandi botti, realizzata con “mattoni” di pietra della Maiella. Su queste pietre ci sono centinaia di bottiglie coperte da forme che assomigliano a cappucci o mantelli, qualcosa che appare come una processione di monaci, di personaggi medievali, di rosacrociani… Questi mantelli, che avevamo realizzati in gran numero, si potevano utilizzare anche a parte, li regalavamo, oppure c’è capitato di bere a casa di amici una bottiglia veramente buona e premiarla col mantello. Sono fatti di un tessuto gommoso, fuori nero e rosso dentro, e vederli tutto l’insieme era veramente impressionante. Quasi si sentiva il brusio delle voci di quelle bottiglie vuote, che erano in processione in attesa di essere riempite. Nella casa, invece, ogni stanza era caratterizzata da segni differenti. Un grande salotto, abbastanza ricco di mobili, tavoli, con una carta da parati molto rovinata alternata a pitture murali, dove avevo (nel 2001) posto tantissimi acquerelli. Poi un altro salotto che affaccia sull’esterno, una stanza che più delle altre dava il senso di abbandono. Lì ho coperto le poltrone e i tavoli con un panno bianco. C’era un tavolino basso al centro, sul quale ho fatto una montagna di farina bianca e ho dipinto il soffitto a volta di rosso che quindi, riflettendosi in basso, riempiva la stanza di questa tinta, di questo colore che muta col sole, una luce che si muove creando ombre colorate sempre differenti, come se fosse la stanza di una seduta spiritica. Questi erano i blocchi di opere più importanti. Poi c’erano opere disseminate in tutta le stanze: sui tavoli, ce ne erano alcune fatte con frammenti di vetro spezzati e colorati, che si riflettevano l’uno sull’altro, tenuti insieme con del silicone lattiginoso bianco, in sostanza dei soprammobili. Inoltre realizzai un piccolo lavoro (che oggi non c’è più) in uno scorcio della cucina che era straordinaria, ricca di arnesi (Nicola era un esperto di cucina), un lavoro fatto attraverso un’ infilata di porte aperte dove in fondo era visibile, come in un cannocchiale, un’altra piccola opera posizionata a terra. In definitiva si trattava di un percorso, in cui si evidenziavano qua e là delle presenze artistiche che erano in sé svuotate, più delle assenze che delle presenze. Erano un omaggio a questa casa così misteriosamente abbandonata da un momento all’altro per motivi che non conoscevo (e che non m’interessava conoscere).

M.S.: Quale importanza ricoprono  figure come quella di Nicola Santoleri per il territorio?

A.P.: In generale non mi va di parlare di questo argomento, ma di Nicola, ne parlo volentieri. Quello che lui ha fatto ha significato la testardaggine di ribadire una verità e questo per un territorio è importantissimo. Noi abbiamo bisogno di figure così in tutti i campi, di uomini e donne testardi, che affermano quello in cui credono rischiando, come ha rischiato Nicola. Abbiamo bisogno di queste figure che sanno dentro di loro di possedere una verità e non sono disposti a barattarla. Oggi, rispetto al vino, si sta riaffermando la verità di Nicola e del suo modo di farlo. Quello che diceva era vero. La verità continua ad agire in alcune persone, soprattutto in quelle che hanno la capacità di renderla non arrogante, non violenta, anzi la offrono con amore, com’era capace di fare Nicola.

courtesy Massimo Camplone