a cura di Edoardo Micati
Alfredo Pirri a Casa Santoleri, Guardiagrele (CH), 2011, photo Massimo Camplone
Molti anni fa mi trovavo con un caro amico sul crinale che da Roccamorice sale verso i pascoli della Maielletta. Salivamo a piedi, nel tardo pomeriggio, in un paesaggio di pietra dove rade erbe affioravano a fatica. Ad un tratto ci fermammo, colpiti dal canto di una voce femminile che giungeva dal basso. Solo allora ci accorgemmo che alcuni contadini stavano mietendo un piccolo campo di grano. Ci sedemmo e restammo in ascolto, completamente affascinati da quelle piccole figure che sullo sfondo del tramonto mietevano cantando. In quei momenti ho compreso a fondo, per la prima volta, il valore di quei mucchi di pietre, di quei muretti a secco, di quelle strane capanne.
Le opere in pietra a secco che caratterizzano la nostra montagna e quella di altre zone europee, soprattutto del Mediterraneo, sono la testimonianza più evidente dell’immane lavoro dei nostri antenati: un paziente accumulo dettato dalla necessità di bonificare campi e pascoli per poter sfruttare quel sottile strato di humus e le rade erbe presenti fra le pietre affioranti ovunque. Al mucchio disordinato, primo ed istintivo modo per liberare il terreno dalle pietre, si sostituirono ben presto precise e studiate forme di accumulo con lo scopo di non rubare terra ai coltivi. In molti casi la fame di terra era tale che, all’accumulo disordinato che avrebbe occupato un’area eccessiva, si preferì il mucchio costruito, con basi circolari, quadrate o a carena, disponendo le pietre più grandi a formare una cortina esterna di contenimento. La stessa capanna in pietra a secco, assimilabile ad un mucchio di spietramento cavo all’interno, rappresentava un ideale luogo di deposito delle pietre, che avevano inoltre l’effetto di renderla più stabile ed impermeabile.
Esaurita la disponibilità delle aree più fertili, poste su piccoli pianori, o sul fondo di conche e doline, si iniziò l’opera di terrazzamento dei terreni in pendio. I terrazzamenti occupano in genere le vallette, più ricche di humus rispetto ai crinali dove maggiormente hanno agito l’erosione e il dilavamento degli agenti atmosferici. La permeabilità del muro a secco di sostegno è fra i motivi della sua relativa longevità: l’acqua assorbita dal terrazzamento, anche nel caso di forti acquazzoni, può fuoriuscire dagli interstizi di tutto il muro senza cercare vie preferenziali che provocherebbero erosione e distruzione delle strutture di contenimento. Le recinzioni in pietra a secco rappresentarono la successiva fase della bonifica dei terreni. In molti casi esse non hanno la precisa funzione di delimitare la proprietà, ma costituiscono una ulteriore maniera per sistemare le pietre in eccesso.
Dal semplice muretto dello spessore di un solo elemento passiamo a recinzioni che si alzano possenti con larghezze di oltre due metri. Si alzarono così muri a secco per realizzare campi terrazzati, per recingere le piccole proprietà strappate alla montagna, per riparare dai venti le colture, per rinchiudere e difendere le greggi, per delimitare e rendere percorribili i sentieri che portavano alla montagna. Molte di queste opere che ancor oggi segnano il paesaggio delle nostre montagne furono le prime opere di quei coloni che nei secoli scorsi si spinsero, dietro un crescente incremento demografico e in seguito alla crisi della pastorizia, a coltivare la media ed alta montagna.
Tale fenomeno fu particolarmente evidente nell’Appennino centrale soprattutto dopo la messa a coltura del Tavoliere delle Puglie. Tutti i terreni montani furono invasi da uomini che dall’alba al tramonto si affannavano per trasformare brulle pendici in campi che nella migliore delle ipotesi davano comunque magri raccolti. Anno dopo anno accatastarono, ammucchiarono, alzarono mura di contenimento, ripararono crolli, convogliarono acque; alcuni con maestria innata, altri con l’arte appresa nella lontana Puglia, altri ancora, guardando e imitando il vicino più abile.
Nei primi anni ’70 del secolo scorso, colpito da quella “mietitura al tramonto”, iniziai una ricerca sulle capanne a falsa cupola, attratto da quelle strane costruzioni. La ricerca si estese in seguito al resto della regione impegnandomi per circa vent’anni. Il fatto che andassi misurando “mucchi di sassi” sembrava strano a coloro che mi conoscevano e qualcuno era arrivato a pensare che fossi uscito fuori di senno! Gli stessi paesani, in alcuni casi costruttori di quelle semplici capanne, rimanevano meravigliati del fatto che me ne interessassi, poiché per loro non avevano molta importanza: erano solo dei rozzi ricoveri che ricordavano anni di sacrifici e di fame.
Alla fine del secolo scorso, dopo il mio censimento regionale delle capanne a falsa cupola, nacque un forte interesse per le opere in pietra a secco e si valutò la possibilità di un loro recupero e valorizzazione a scopo turistico oltre che come testimonianza storica. Con la Legge Regionale n.17 del1997 le capanne a falsa cupola furono messe sotto vincolo e furono stanziati dei fondi per il loro recupero e la loro valorizzazione. Queste costruzioni, oltre a rappresentare una importante testimonianza della vita agricola e pastorale dell’Abruzzo, sono entrate a far parte della geografia della regione caratterizzandola, in alcune zone, in maniera inconfondibile. L’abbandono dei campi della media ed alta montagna ha portato anche all’abbandono della consuetudine annuale del ripristino dei cedimenti dei muri a secco e delle capanne.
A questo lento dissesto del paesaggio agrario imputabile a naturali fenomeni di degrado, si aggiunge l’intervento dell’uomo. Un altro grave pericolo per questo patrimonio culturale viene da coloro che in nome di un recupero delle tradizioni intende utilizzare tali testimonianze in modo improprio. E sorgono così squallide aree per picnic dove le capanne sono degradate alla funzione di depositi di immondizie.
Nell’arco di pochi anni sono nate numerose iniziative che vedono l’architettura in pietra a secco sempre più al centro dell’interesse degli enti pubblici e di alcune associazioni culturali. Diversi comuni sono oggi impegnati nella realizzazione di musei all’aperto per lo studio dell’antico paesaggio agropastorale ed hanno aderito inoltre ad una iniziativa dell’Archeoclub di Pescara per proporre una legge nazionale che tuteli queste opere.
Il Comune di Abbateggio ha realizzato nel sito archeologico di Valle Giumentina l’Ecomuseo del Paleolitico, collocando i pannelli didattici in un complesso in pietra a secco, formato da diverse capanne e recinti, costruito per tale scopo.
Il Comune di Lettomanoppello può vantare nel proprio territorio, in aree demaniali e private, delle zone con magnifici campi terrazzati ricchi di capanne. Nel territorio di Roccamorice troviamo i più bei complessi agro-pastorali in pietra a secco che vanno assolutamente salvati dal degrado. Infine il Parco Nazionale della Majella ha mostrato grande interesse per un progetto di tutela e restauro dei complessi agro-pastorali più interessanti. Nell’ambito di questo progetto si potrebbero creare dei “cantieri scuola” per istruire i giovani sull’antica tecnica del costruire in pietra a secco.
Oggi possiamo dire che quelle pietre che segnano in maniera inconfondibile le nostre montagne, messe le une sulle altre con grande fatica, rappresentano un grandioso monumento ai sacrifici dei nostri padri e la testimonianza di un preciso momento storico.