a cura di Daniela Bigi.
PARLARE DI SUD, E NELLO SPECIFICO DI SUD ITALIANO, SIGNIFICA OGGI RACCONTARE DI UNA CONDIZIONE DEL TUTTO ORIGINALE, INEDITA, TRA LE PIÙ STIMOLANTI CHE SI POSSANO OFFRIRE ALLA SPERIMENTAZIONE DI MODELLI MUSEALI CORAGGIOSI.
Il dibattito museologico degli ultimi vent’anni, accelerato dalla proliferazione globale dei musei (oltre che dalla nascita dei musei globali), scandito dalla fantasmagorica apparizione dei buildings delle archistar, ossessionato dalla topica del pubblico, attratto dall’articolazione di mirabilanti offerte di servizi, intento a bilanciare istanze difformi come conservazione, interpretazione, valorizzazione, intrattenimento, marketing e produzione di valore, si è inevitabilmente concentrato su una tipologia istituzionale legata alla metropoli di scala mondiale, una tipologia che, come alcuni hanno tempestivamente individuato, altro non era che il precipitato esemplare delle strategie del tardo capitalismo – o, come direbbe qualcun altro, del capitalismo della fase totalitaria.
Una tipologia che però non poteva adattarsi a qualsiasi paese, a qualsiasi territorio, un modello incapace di esprimere, o di includere, la vastità potenziale delle esperienze immaginabili.
E l’Italia si può considerare un esempio calzante delle falle di quel modello, non credo soltanto per un’arretratezza organizzativa o per una inadeguatezza formativa quanto, più probabilmente, per una naturale, fisiologica, resistenza ad una omologazione incondizionata ai flussi globalizzanti, dovuta probabilmente alla sua mai completata trasformazione in un paese moderno, nel senso di quell’occidentalizzazione con la quale certi filosofi intendono la pervasiva/totalizzante/totalitaria dominazione del capitalismo.
D’altronde è ormai acquisito che non basta la cifra dell’architetto o la ricetta del progettista/museologo (o addirittura del museografo, come è avvenuto sempre più spesso negli ultimi quindici-vent’anni) a fare di un museo un’istituzione capace di esprimere autenticamente la dimensione culturale di una comunità, di rispondere alle sue istanze di crescita sociale, attrezzata per rileggerne e interrogarne il passato, intenzionata a svilupparne il potenziale creativo e produttivo. Né, per continuare a giustificare l’enorme costo del museo in termini di spesa pubblica, si può perpetrare l’errore della verifica quantitativa dei rientri, tra biglietteria e servizi aggiuntivi. il capestro dell’audience non ha certo salvato la televisione (e continuo a riferirmi soprattutto all’italia) dal progressivo svilimento di contenuti, qualità e autonomia culturale…
Anzi, va ricordato che il dibattito interno alla Nouvelle Muséologie ha sottolineato abbastanza presto l’allarmante differenza tra pubblico audience e pubblico comunità e credo che, a distanza di qualche decennio, si debba ripartire proprio da quella distinzione e riaffrontare prioritariamente in sede politica la questione cruciale che ne consegue.
Tornando al Sud, e alla condizione che esso esprime nella congiuntura storica attuale, bisogna innanzitutto evidenziare che è la prima volta nella storia recente che viene assunto allo stesso tavolo progettuale delle altre aree italiane e non per politically correctness, come è avvenuto per decenni, ma in quanto effettivo portatore di contenuti nuovi, e questo ribaltamento di prospettiva, prima ancora che dai percorsi istituzionali, è desumibile da quelli spontanei, autogestiti, giovanili, basti guardare all’importantissimo lavoro svolto dagli artist run spaces.
Lo scenario al quale mi riferisco, di certo inedito rispetto a quello preso in esame negli ultimi decenni dal dibattito museologico (e che nulla ha a che fare anche con quello, pure per qualche verso assimilabile, toccato dagli studi post-coloniali), è quello in cui l’aggiornamento culturale e la determinazione costruttiva dei più giovani si sono innestati in un sistema di valori – e in molti casi in un paesaggio – che ha difeso e custodito l’ancoraggio ad una storia plurimillenaria ove eredità mediterranee, saperi tradizionali, ritualità collettive, colture secolari hanno disegnato e ridisegnato, ininterrottamente, equilibri e squilibri, in una latenza tutt’altro che immobile, tutt’altro che indolente, tutt’altro che inconsapevole.
Il fatto che oggi, quelle terre, in certi casi ancora a carattere rurale o comunque micro industriale, traboccanti di segni e sapienza antica, meta e approdo di etnie diverse, rappresentino una piattaforma ove esprimere e verificare istanze aggiornate, competenze giovanili acquisite sulla scena internazionale, relazioni intessute su scala globale, costituisce un potenziale che proprio in un momento di acuta crisi valoriale oltre che economica non può sfuggire neppure al più globalizzato degli osservatori.
C’è una storia significativa da raccontare in tal senso ed è quella di RISO – Museo d’arte contemporanea della Sicilia, che all’atto dell’istituzione, nel 2007, ha scelto di dotarsi dell’identità del museo diffuso, un modello che trova le sue radici nel dibattito francese degli anni settanta e che si struttura proprio a partire da una concezione del pubblico come comunità (e non come audience).
Nato su presupposti che l’ Italia non aveva ancora accolto negli anni della proliferazione dei musei e dei centri per l’arte contemporanea (non dimentichiamo che ancora alla metà degli anni novanta i luoghi istituzionali vocati esclusivamente al contemporaneo in Italia erano pochissimi e quindi la nascita e lo sviluppo della maggior parte di essi è avvenuta negli ultimi quindici/venti anni), gestito per quattro o cinque anni con grande intelligenza degli obiettivi, è stato poi smantellato nel 2012 per funzionamento troppo virtuoso (l’analisi delle ragioni politiche di quello smantellamento necessita di altro spazio e altra sede, ma di certo si rende necessaria, così come si fa urgente una riflessione schietta su quanto sta avvenendo a Rovereto, a Torino, a Bologna, a Roma, a Prato… Se il dibattito museologico non si confronta con il pensiero politico rischia di rimanere sterile esercizio accademico).
Quell’idea di museo diffuso nasceva dallo studio e dal rispetto delle peculiarità storiche, culturali, geografiche, economiche di una terra straordinaria e difficile come la Sicilia, e si poneva come possibile modello di sviluppo non attraverso l’imposizione di modelli eteronomi e globalizzati bensì attraverso una sorta di processo maieutico generato da una serie di azioni volte a rileggere e valorizzare il patrimonio culturale isolano attraverso il motore del pensiero e delle metodologie del contemporaneo.
Il progetto era evidentemente ambizioso e pensato a medio e lungo termine, incardinato all’arte contemporanea per rivolgersi alla cultura in termini estensivi, ancorato ad un edificio cittadino (Palazzo Belmonte Riso a Palermo), quindi con vocazione urbana, ma presente, attraverso attività diversificate e partnership di diversa natura, nell’intera regione, anche nelle aree meno urbanizzate. Le direzioni di lavoro portate avanti in quei pochi ma densi anni di attività, se da una parte hanno seguito un percorso museale tradizionale – dalla nascita di una collezione permanente alla programmazione di una attività espositiva e alla conseguente predisposizione dei servizi connessi, dalla didattica alla caffetteria al bookshop – dall’altra hanno espresso a diversi livelli l’idea che il museo non fosse altro che un dispositivo atto a dar voce alle proposizioni culturali più recenti di una terra che bisognava tornare a considerare come il più importante avamposto mediterraneo in Europa, ma al contempo un volano per il recupero di discorsi interrotti, per la riemersione di testimonianze artistiche d’eccellenza, per la rilettura di storie più o meno lontane nel tempo da sottrarre all’oblio.
La prima azione in tal senso è stata quella di ripartire da una sorta di mappatura del presente al fine di meglio comprendere quale futuro poter progettare, e inevitabilmente le prime tre realtà coinvolte in un progetto congiunto sono state Gibellina, Fiumara d’arte e il Museo di Montevergini a Siracusa, realtà che in tempi diversi (rispettivamente gli anni settanta, ottanta e novanta/duemila) e con modalità differenti avevano lottato per l’affermazione del portato artistico contemporaneo.
Parallelamente veniva inaugurato uno Sportello dedicato alla scena siciliana emergente (S.A.C.S), pensato come archivio ma anche come una specie di agenzia, volto alla valorizzazione dei giovani artisti siciliani attraverso programmi condivisi con istituzioni straniere (per lo più di area mediterranea).
Sulla stessa linea di intervento nascono le prime due mostre a Palazzo Riso, centrate sulla ricognizione delle più importanti collezioni d’arte contemporanea della Sicilia. Dunque un museo poco glamour, molto concentrato sulle istanze del suo territorio, ma con una strutturale inclinazione al dialogo internazionale.
Mentre realizza queste iniziative RISO progetta gli step successivi, che vanno dai laboratori scientifici sulle problematiche conservative del Cretto di Burri a Gibellina (museo come attore della conservazione), all’ampliamento della collezione (museo come scrittura della storia), al potenziamento delle attività di SACS (museo come osservatore e promotore delle espressioni più significative del suo tempo), alla messa in atto di una rete di collaborazioni istituzionali mediterranee (mostre/scambio con le Biennali di Atene, istanbul e Marrakesh, ovvero museo come attore di una politica culturale internazionale), all’ideazione di un progetto su scala regionale, “Germogli di Riso”, che prevedeva la circuitazione delle opere della collezione (di livello e di provenienza locale, nazionale e internazionale purché per qualche motivo collegate alla Sicilia, per motivi ideativi, o realizzativi, o per committenza, o per tematica, e via dicendo) in aree mai toccate dalla ricerca artistica contemporanea, lontane dagli itinerari consolidati, ma custodi di patrimoni architettonici superbi da restituire alla collettività (museo come volano turistico, economico, ma anche di ricerca e di occupazione in territori sfuggiti agli ingranaggi dello sviluppo regionale).
Nel frattempo, di mese in mese, si stringe la collaborazione con le istituzioni siciliane del contemporaneo, fondazioni, gallerie, accademie, università, associazioni, con coinvolgimenti di vario genere e a vario livello, mentre una sorta di house organ, i “Quaderni di Riso/Annex”, enucleano le tematiche portanti del lavoro museale, raccontano i progetti in corso e ospitano contributi di esperti nazionali. In pochi anni RISO mette in piedi e valorizza il sistema dell’arte siciliano, mai esistito in precedenza, permette alla comunità dell’arte di costituirsi come tale, di riconoscersi, di sostenersi in una azione condivisa, difende e diffonde il pensiero contemporaneo.
Intanto l’attenzione al territorio cresce, si mette a fuoco, e presto si traduce nell’attivazione di un programma di residenze studiato con l’obiettivo di portare gli artisti in luoghi distanti dalle mete turistiche abituali, di inserirli all’interno delle comunità locali come interlocutori e attivatori di processi di conoscenza, di invitarli alla lettura del paesaggio nella sua duplice dimensione, visibile e invisibile, e all’interazione concreta con le emergenze architettoniche locali.
Il progetto4 – che ha interessato Enna, Termini Imerese, Capo d’Orlando, Ficarra, ovvero centri urbani differenti per dimensione demografica, estensione territoriale, importanza storica, consistenza economica, condizioni di sviluppo – ha avuto un riscontro straordinario sia sul piano del coinvolgimento locale sia nei risultati artistici conseguiti, riattivando iniziative culturali abbandonate da tempo (per esempio il Premio Vita e Paesaggio a Capo d’Orlando, dove ha lavorato Hans Schabus), rilanciando l’impegno di gruppi di lavoro intenti già da anni nella rilettura del proprio territorio (come il Museo Lucio Piccolo di Ficarra, al quale si è dedicato Massimo Bartolini), facendo riaffiorare brani importanti ma rimossi della storia locale recente (come è avvenuto ad opera di Marinella Senatore che ha lavorato con le comunità di minatori dei dintorni di Enna), attivando il dibattito civile intorno a questioni collettive (come nel caso di Flavio Favelli e Zafos Xagoraris che si sono infiltrati nel tessuto critico di Termini Imerese a ridosso della chiusura degli stabilimenti Fiat).
Un progetto di forte coesione tra museo, artisti, istituzioni e attori locali, i cui risultati sono stati poi ricongiunti, ampliati e ridiscussi, nella sede ufficiale di Palazzo Riso, con un movimento complesso che nelle sue varie fasi – ascolto, ricerca, collaborazione, sintesi, valorizzazione, ampliamento – ha testimoniato dell’importanza di una regia unitaria e condivisa capace di stimolare e altresì di accreditare processi locali di crescita che rischierebbero di esaurirsi senza l’inserimento in un corso più ampio e ambizioso di sviluppo, così come istanze di ricerca che troppo facilmente potrebbero ricadere dentro il recinto di una autoreferenzialità erudita.
Progetti analoghi, nelle stagioni successive, avrebbero dovuto approfondire ed estendere questa tipologia di intervento, ma proprio a quel punto è arrivato l’intervento politico ad arrestare la macchina, ormai ben lanciata, del museo
diffuso. La politica non ha capito, o non ha voluto capire. RISO ha chiuso i battenti, e quando li ha riaperti, qualche mese dopo, si è trovato ad indossare la veste usurata della vecchia inutile istituzione museale di provincia.