Alla scoperta della civiltà dei carbonai
a cura di Filippo Tronca
Il catozzo pareva di notte un tempio oscuro con un ventre invisibile di fuoco e luce. Edificato in autunno da callose mani devote, baiardo dopo baiardo, con tronchi tagliati coi segoni a quattro mani, trasportati a spalla giù per il bosco. Respirava quel vulcano fatto di legno, terra e foglie, aspirando ossigeno dagli sbirroni e sbuffando fumo bianco vaporoso e poi sempre più secco e nero dalle fumarole. E i custodi dovevano stare attenti che non ballasse la vecchia, perché il trermolio del fumo non era buon segno, e che il catozzo non facesse il verme, diventando alla fine inutile cenere. E mentre borbottava la polenta nella callara appesa alla camastra, anche il catozzo aveva sempre fame, e doveva essere rabboccato, gettando legna nel suo cratere, su è giù per il curvo scalò, per otto giorni e otto notti, a turno mentre i compagni dormivano sulla dura rapazzola e su materassi di foglie sotto capanne di rami e arbusti, o recitavano a memoria, se pure quasi analfabeti, nelle rare pause, l’Orlando furioso e il Guerrin meschino. In attesa del sudato raccolto di schegge di luce che si spegnevano nella notte. Del catozzo abbattuto restava cannellino, coratella, e ferrigno, di gran lunga il carbone migliore, da separare dalla terra, da infilare nelle balle tenute aperte dai pizzuchi, da riportare in paese ingroppa agli asini e ai muli.
Direbbe il filosofo Wittgenstein: ogni forma di vita ha i suoi giochi linguistici, perché le parole sono attrezzi come un martello, una sega o un cacciavite. “Questo si faceva…così si diceva”, conferma a Tornimparte, alta valle dell’Aterno, un anziano al bar che conserva la memoria della stagione dei carbonai, ovvero dell’arte di produrre carbone attraverso la lenta combustione di cataste coniche di legna ricoperte di terra e foglie. Un mestiere che per più di un millennio ha dato da vivere a generazioni di paesani, ha dato luce e calore a tutte le case della conca aquilana e combustibile per le fornacelle nelle cucine, fuoco vivo nelle fucine dei fabbri e di altri artigiani. Una lunga storia, finita nel secondo dopoguerra, quando arrivò il gas e il carbone a prezzi imbattibili dell’Europa dell’est. Oggi di carbonai in vita ne sono rimasti molto pochi. C’è chi però in segno di riconoscenza e affetto, ne conserva ancora e ne ravviva il ricordo. Tra essi Antonio Porto, economista eretico, che ai carbonai ha dedicato ricerche e realizzato nel 1990 un documentario insieme all’etnografo Vincenzo Battista. Per l’occasione è stato ricostruito un catozzo insieme agli ultimi carbonai. “Un esperienza indimenticabile – racconta Antonio – perché a questo vero e proprio rito laico e materiale, parteciparono centinaia di persone, e tanti giovani, che hanno osservato in silenzio un qualcosa che apparteneva anche a loro, parlava della loro storia, della loro montagna.”La bellezza, ha scritto Ada Merini, è il disvelamento di una tenebra caduta, e della luce che ne è venuta fuori.
Ed è la stessa bellezza che troviamo in un’altra preziosa testimonianza della civiltà dei carbonai, sfogliando uno splendido volume fotografico di Luciano D’Angelo, “L’oro del bosco” – da cui sono tratte le immagini qui pubblicate – , che parla con il silenzio delle immagini di gesti memorabili e lenti, di volute di fumo, di uomini orgogliosi della dura vita che conducevano, del pulviscolo di carbone, che aveva preso stabile dimora sotto la loro pelle. Un dilemma cupo però ti assale: se quella del carbonaio è solo archeologia industriale, un storia finita, buona solo per nostalgiche rappresentazioni folkloriche, cos’è mai quel misterioso messaggio di redenzione che guizza tra la filigrana di quelle foto? Una risposta la si può trovare alzando lo sguardo verso i grandi e rigogliosi boschi di faggi, querce e castagni che circondano le diciotto frazioni di Tornimparte che significa infatti “fortezze dislocate in varie parti”. Leggendo il paesaggio si scopre infatti che la salute, la vitalità, l’armonia di quei boschi è dovuta proprio all’attività dei carbonai e boscaioli che li hanno sfruttati per secoli. Il bosco era la loro unica materia prima, che doveva essere utilizzata con saggezza e parsimonia, scegliendo ad ogni stagione con attenzione gli alberi da tagliare, contrassegnati con un colpo di martello, e quali invece preservare, per consentire al bosco di rinnovarsi e perpetuarsi. I carbonai, quando poi salivano in montagna a costruire i catozzi si portavano da casa solo il segone e poco altro, tutto il resto lo fabbricavano in loco, dalla capanna al giaciglio, dalle scale agli zoccoli per non bruciarsi i piedi e altri utensili – altro che l’Ikea – e tutto alla fine veniva bruciato e trasformato in carbone. Del loro opificio non restava nulla, se non un cerchio annerito in una radura, presto riconquistata dal sottobosco.
I carbonai avevano insomma capito un qualcosa che gli ottusi soloni della Bocconi, i venditori di fumo della speculazione finanziaria, i fanatici sacerdoti del Pil e dello spread, fanno finta di ignorare per continuare a spacciare il profitto di pochi eletti come interesse generale, per propagandare le virtù energivore e regressive di un’economia predatoria e bulimica, che distrugge le risorse lasciando il conto amaro alle generazioni a venire. Tornimparte, come quasi tutti i “paesi dell’osso”, ovvero dell’Appennino interno e lontano dai circuiti del consumare del produrre, si sta lentamente spopolando. I giovani vanno via, gli anziani muoiono, e se non sono i paesani ad andarsene, ha scritto Franco Arminio, è la città, con la sua modernità incivile e il suo autismo corale, a colonizzare i paesi, condannandoli a mettere in scena per qualche giorno d’estate una vita a cui abbiano smesso di credere, quella che consiste nel piacere di incontrarsi, parlarsi, passeggiare, passare il tempo senza assaltarlo. Antonio però non si rassegna a questo destino di sparizione e ha un sogno da coltivare: “Queste terre quasi tutte incolte – spiega con un guizzo di entusiasmo – potrebbero essere riutilizzate per impiantare frutteti e castagneti, e anche per piantagioni di ribes, mirtilli, uva spina, e altri frutti di bosco ad utilizzo non solo alimentare ma anche medicinale, per rifornire il vicino polo farmaceutico dell’Aquila. E poi si potrebbe avviare, con finanziamento pubblico strategico, una grande opera di forestazione al fine di frenare il dissesto idrogeologico di queste vallate. I comuni potrebbero affidare a cooperative di giovani buona parte di questi boschi, che sono di uso civico, per riattivare la filiera del legname. In questo modo si potrebbero creare tanti posti di lavoro, per boscaioli, falegnami, artigiani del legno, agricoltori, piantumatori e agronomi, esperti del suolo e delle piante. Non solo, con gli scarti del legname e il materiale risultante da una costante pulizia del sottobosco, si potrebbero alimentare piccoli impianti a biomassa, che abbatterebbero i costi dell’energia, e dell’acqua calda”. Il fuoco e il calore, ha scritto Gaston Bachelard, sono l’occasione per ricordi imperituri, per esperienze personali semplici e decisive. Ma soprattutto aggiunge: “Se tutto ciò che cambia lentamente si spiega attraverso la vita, ciò che cambia rapidamente si spiega attraverso il fuoco. Il fuoco è per l’uomo che lo contempla un esempio di divenire rapido e circostanziato”. Ecco forse spiegato il segreto fascino della civiltà dei carbonai, che non parla solo di un nostalgico passato, ma di una nuova alba, per questi angoli d’Italia minore nell’ora del loro crepuscolo.