a cura di Edoardo Micati.
Sulle nostre montagne, oltre una certa quota, l’acqua è un bene raro. La pioggia e l’acqua delle nevi penetrano fra le rocce e le rade erbe per raggiungere, attraverso mille vene sconosciute, i grandi bacini racchiusi nel grembo dei monti. Molto più in basso, nei ripidi valloni, essa torna in superficie scendendo impetuosa, o comparendo all’improvviso fra le rocce per sparire di nuovo dopo un breve tratto, mentre in alto, dove vivevano i pastori e le loro greggi, scorre fra le pietre e i muschi
in piccoli rivoli silenziosi e gocciola dalle pareti in un lento stillicidio.
I grandi fontanili sono piuttosto rari, mentre i laghetti e le piccole pozze stagionali li troviamo solo nelle zone degli altipiani, tanto che il pastore ha dovuto necessariamente imparare ad essere frugale anche nell’uso dell’acqua: infatti in questi piccoli invasi naturali gli animali entrano per abbeverarsi rendendo l’acqua inutilizzabile per gli uomini. I modesti segni lasciati nei luoghi che ha frequentato per secoli testimoniano in quale considerazione il pastore avesse le più piccole sorgenti e con quale cura le preservasse. Le ha curate a tal punto che i luoghi assunsero, in alcuni casi, carattere sacro.
Nel lento percorrere le balze montuose pastore e gregge tornavano giornalmente in quei luoghi dove sapevano di poter trovare un minimo di acqua e un riparo dal sole del mezzogiorno. Una minuscola vena, che a malapena riempiva una brocca in una intera ora, veniva curata religiosamente scavando una vaschetta dove raccoglierla, circondandola di pietre e coprendola per preservarla dagli animali. In queste piccole pozze di acqua chiarissima il pastore beveva poggiando leggermente le labbra sulla superficie per non turbare il precario equilibrio con i sedimenti del fondo. Poco importava se una minuscola piuma azzurra galleggiava sulla superficie: alle prime luci dell’alba qualcuno lo aveva preceduto.
I pastori che frequentavano i pascoli più alti andavano sui nevai per sfruttare l’acqua di scioglimento prima che sparisse fra le pietre; dopo l’abbeverata le pecore si ammassavano sulla neve, nelle ore più calde, alla ricerca di refrigerio: “Da la Mmersa Grande ci stà angore ‘ll’itre grutte che si chiame la Grotta Ciamaichiere. A elle ci sta
‘nu canale… che è chiamate Lu canale de la neve. Pecché poche degli anni che finive la neve a elle. Li pasture squajevene la neve e ci s’abbeverave pure li bestie. (Da la “Mmersa Grande” ci sono ancora altre grotte che si chiamano la Grotta Ciamaichiere. Lì c’è un canale… che è chiamato Il canale della neve. Perchè erano pochi gli anni in cui la neve lì finiva. I pastori scioglievano la neve e ci abbeveravano anche gli animali.) (Del Pizzo N., Palombaro)
Sulle grandi rocce piatte è facile trovare numerose coppelle fra loro collegate da canalette e tutte confluenti in una canaletta principale terminante nel punto più basso della roccia: sotto veniva posto un recipiente che si riempiva ad ogni pioggia. A volte troviamo solo delle incisioni, o delle canalette per far convergere l’acqua verso una coppella, una vasca, o un qualsiasi recipiente.
In alcune zone è ancora possibile trovare delle vasche realizzate con lastre di pietra o addirittura scavate in grossi macigni. Particolarmente interessante è la Fonte di S. Maria, in territorio di Lettomanoppello, in quanto l’antica presenza di un tal genere di vasche ha dato il nome ad una vicina chiesetta oggi diruta: S. Maria alla Fonte dei Trocchi.
Esistono anche esempi di abbeveratoi ricavati direttamente nelle formazioni rocciose del monte.
Ricordiamo quello di S. Spirito a Majella (Roccamorice), al servizio di una ricca e numerosa comunità monastica, e quelli di Fonte della Spogna e Fonte S. Martino (Lama de’ Peligni) per gli eremiti di Grotta Sant’Angelo e i pastori che frequentavano quei difficili pascoli. Un’altra piccola fonte ricavata nella roccia la troviamo lungo il sentiero che conduce all’eremo di San Giovanni d’Orfento.
Ma tutte le nostre montagne sono piene, nei luoghi più nascosti e non frequentati da decenni, di piccoli punti d’acqua che possono dissetare anche nelle stagioni più secche. Non è difficile trovare,
dove scaturiscono minuscole vene d’acqua, canalette in legno o metallo, ma spesso fatte anche con larghe foglie, per potervi attingere più facilmente.
Nel secolo scorso la captazione delle sorgenti montane per la realizzazione di acquedotti ha favorito la costruzione di numerosi fontanili disseminati sui pascoli, ma non era certamente questa la situazione dei secoli addietro. Fontanili ed abbeveratoi si trovavano solo dove l’acqua nasceva e in tali punti confluivano le greggi anche dai pascoli più lontani. Altrimenti uomini ed animali dovevano accontentarsi di quello che la montagna offriva ed ogni tanto sperare in qualche benefico acquazzone. Gli abbeveratoi che troviamo sui pascoli sono le classiche vasche a scomparti comunicanti (fontanili), in pietra o in cemento.
Tutte le sorgenti hanno un serbatoio di carico dal quale l’acqua arriva al fontanile. Le vasche del fontanile possono essere addossate al pendio e quindi al muro di contenimento che chiude la cisterna di carico, o perpendicolari a questo permettendo l’abbeverata da entrambi i lati. Nel primo caso le vasche sono in comunicazione fra di loro tramite dei fori nel settore di separazione; nel secondo caso sono a livelli digradanti. Alla Fonte del Tasso (Roccamorice) si è voluto separare la fonte riservata all’uomo dall’abbeveratoio per gli animali: infatti una semplice fonte con vaschetta è direttamente collegata al serbatoio di carico, mentre lo scarico di questa passa all’abbeveratoio posto ad una quota inferiore.
Alcune fonti, anche situate a notevole quota, possono vantare un aspetto monumentale come Fonte Tarì sulla Majella Orientale, o, in misura minore, Fonte Chiarano nel Feudo di Chiarano-Sparvera oppure essere impreziosite da fregi e rilievi come Fonte Fredda sul Morrone.
Nelle zone pastorali dove non esistono sorgenti, una grossa cisterna di carico, in genere costruita in fondo a vallette molto innevate, raccoglie l’acqua di scioglimento delle nevi e quella piovana restituendola attraverso le tradizionali vasche.
Sul Morrone troviamo delle “piscine”, grandi pozzi scoperti in muratura, ai quali si accede tramite delle scalette interne. Tipici della zona di Chiarano sono i “pozzacchi”, sorgenti di scarsa portata incassate nel terreno, dai quali era necessario prelevare l’acqua con dei recipienti e versarla negli abbeveratoi. Infatti anche se il livello dell’acqua si manteneva quasi alla quota del terreno, l’esiguità dello spazio e la necessità di mantenere pulita la sorgente impedivano l’abbeverata diretta al pozzacchio. Sono particolarmente numerose, sul Gran Sasso, delle pozze naturali alcune delle quali tendono a prosciugarsi nel corso della stagione estiva. È particolarmente interessante il Lago S. Pietro, laghetto effimero, che presenta una antica struttura in pietra a secco per il “bagno” delle pecore.
L’esempio più bello di un lago al servizio delle comunità pastorali è senza dubbio il Lago Pantaniello, nel Feudo di Chiarano-Sparvera. Il laghetto raccoglie l’acqua di scioglimento delle nevi di un vasto bacino ed è alimentato da una modesta sorgente. Il livello delle acque è mantenuto da una diga in pietra: altrimenti parte delle acque andrebbe a formare una piccola pozza proprio sotto lo stazzo. In effetti è quanto avviene nel periodo primaverile, quando le acque debordano dal basso sbarramento.La penuria di sorgenti ha spesso provocato delle liti fra comuni confinanti. Ai primi del 1800 i Comuni di Palombaro e Fara S.Martino rivendicavano entrambi il possesso di FonteRuscio e Fontanelle
da Capo, sorgenti situate al confine fra i due Comuni. In effetti le due sorgenti erano da tempo usate e curate dai pastori di entrambi i Comuni, ma nel 1811 Nicola Lombardi di Fara S. Martino, avendo comperato le erbe estive in quella zona, vietò l’accesso alle fonti ai pastori palombaresi
scatenando così una lite di confine.
La Fonte di S. Maria, detta anche “dell’acqua frasseninca”, o “deitrocchi” e ancora di “S. Maria diruta”, fu anch’essa oggetto di disputa nel 1700fra il monastero di S. Liberatore e l’Università di Manoppello. Quest’area, fra Fosso S. Angelo e la Valle dell’Alento, all’epoca era utilizzata per il pascolo e si può comprendere l’importanza che aveva questa fonte in una zona povera di sorgenti.
Nei Capitoli di Roccaraso troviamo invece diversi articoli che regolamentano l’accesso all’acqua di quelle greggi che occupano “poste pascolative” prive di sorgenti.